SODOMA: EFFETTI COLLATERALI
Il racconto biblico di Sodoma e Gomorra non è soltanto una pagina antica di teologia, ma un archetipo che mette a nudo una tensione sempre attuale: come conciliare la giustizia con la presenza del male collettivo. L’immagine di Dio che decide la distruzione della città e di Abramo che osa intercedere in difesa dei giusti rappresenta una drammatizzazione di una questione che non appartiene al passato remoto, ma continua a interrogare ogni società umana: fino a che punto è legittimo sacrificare l’innocente in nome di un presunto bene più grande?
Abramo, contrattando con Dio, afferma un principio fondamentale: la giustizia non può essere cieca, non può livellare tutti sotto la medesima condanna. La presenza di un solo innocente è sufficiente a mettere in discussione la legittimità di una punizione collettiva. È una lezione di straordinaria attualità, perché ogni volta che si parla di “danni collaterali” o di “inevitabilità” della morte dei civili, si ripete la stessa dinamica che il racconto biblico rende problematica.
Il punto più inquietante del testo emerge quando, non essendoci i dieci giusti richiesti, la distruzione diventa totale. Il dramma non sta soltanto nella catastrofe, ma nell’apparente rimozione della questione più radicale: che ne è dei bambini, degli infanti, degli innocenti assoluti? La logica della punizione collettiva mostra qui la sua nudità: non distingue, non pesa, non valuta, ma travolge. È la stessa logica che ritroviamo oggi nei bombardamenti su Gaza, quando un’intera popolazione viene considerata corresponsabile dei gruppi armati che la governano; o negli attacchi indiscriminati che devastano città ucraine, dove i civili diventano il bersaglio per piegare la resistenza di un popolo. In entrambi i casi, il discorso ufficiale parla di “obiettivi militari” e “necessità strategiche”, ma la realtà è che a pagare sono sempre i più fragili.
La forza simbolica del racconto biblico, proprio nella sua problematicità, non consiste nell’offrire una soluzione, ma nel mostrare lo scandalo che accompagna ogni decisione che non distingue tra colpa e innocenza. È un monito: il rischio più grande non è la catastrofe naturale o divina, ma la tentazione umana di concepire la giustizia come vendetta collettiva, di sacrificare l’innocente sull’altare della sicurezza o della ragion di stato.
Applicata alla realtà contemporanea, questa dinamica diventa ancora più drammatica. Non siamo più davanti a un mito che parla per simboli, ma a scenari concreti, a corpi senza vita, a bambini che muoiono davvero sotto le macerie di Gaza o di Mariupol. Se già nel racconto simbolico la punizione indiscriminata appare intollerabile, come giustificarla nella concretezza della storia, dove il prezzo non è un’immagine ma la carne viva degli innocenti?
Il vero insegnamento non risiede nella distruzione finale, ma nella voce di Abramo che osa dire di no. È l’idea che la giustizia, per essere tale, deve proteggere l’innocente prima ancora di punire il colpevole. Ogni volta che una società dimentica questa distinzione, ogni volta che accetta che la morte di bambini sia un prezzo “inevitabile”, essa non solo commette un’ingiustizia, ma mette a rischio la propria stessa umanità.
Il bambino che muore a Gaza o in Ucraina è il simbolo ultimo di questo problema. La sua innocenza è un fatto incontrovertibile: non c’è ideologia, non c’è giustificazione politica o militare che possa relativizzarla. Se la giustizia non riesce a proteggere chi è privo di colpa, allora smette di essere giustizia e si riduce a semplice forza, mascherata da legittimità.
Il racconto di Abramo, con la sua protesta, diventa così un criterio permanente: non possiamo accettare che la morte degli innocenti sia considerata il prezzo inevitabile della sicurezza o del potere. Resistere a questa logica non significa ingenuità, ma custodire ciò che rende ancora possibile parlare di giustizia, di civiltà e di dignità umana.
Commenti
Posta un commento