TRAUMI IRRISOLTI


Viviamo tempi straordinari, in cui la semplice nostalgia dell'infanzia di personaggi della TV a pagamento può scatenare insurrezioni digitali degne della Comune di Parigi, e assistiamo quotidianamente al miracolo moderno di quarantenni flaccidi che si trasformano in guerriglieri della tastiera al solo sentore di Suite Life of Zack and Cody, brandendo tweet come fossero fucili d'assalto nella loro personale battaglia contro l'imperialismo Disney. Ma fermiamoci un attimo: se davvero dovessimo applicare questa logica rivoluzionaria con coerenza, allora chiunque abbia avuto accesso a qualsiasi bene o esperienza che altri non si potevano permettere dovrebbe flagellarsi pubblicamente - il motorino a sedici anni sarebbe privilegio borghese, le lezioni di piano elitarismo musicale, la barca del papà feudalesimo acquatico, l'equitazione aristocrazia equestre che opprime i pedoni. Eppure, stranamente, l'indignazione collettiva si concentra esclusivamente su quel covo di perdizione che era Disney Channel, come se citarlo fosse un crimine di guerra contro il proletariato mondiale.

C'è qualcosa di pateticamente esilarante nel vedere questi eroi della rivoluzione da salotto scatenarsi contro chiunque osi ricordare con nostalgia Lizzie McGuire, gli stessi che trasformano ogni thread Twitter in un campo di battaglia, armati di emoticon tristi e indignazione prefabbricata, pronti a sterminare chiunque confessi di aver guardato Phil of the Future. È la loro Vietnam personale, solo che invece del napalm hanno gif animate e hashtag vendicativi, dove ogni menzione di Disney Channel diventa Pearl Harbor e ogni ricordo nostalgico un attacco diretto alla loro dignità di classe, mentre si atteggiano a difensori delle masse oppresse quando in realtà stanno solo esorcizzando i fantasmi della loro infanzia frustrata.

Scaviamo nelle origini di questa guerra santa: trent'anni fa, questi stessi combattenti erano bambini che si incollavano ai divani degli "amici fortunati", fingendo suprema indifferenza mentre spiavano ogni episodio di Zack e Cody, ribolendo dentro di un'invidia che nemmeno Dostoevskij avrebbe saputo descrivere con tale precisione psicologica. Il rituale era sempre lo stesso - tornavano a casa a frignare, accusando i genitori di essere poveracci incapaci, facendo sentire in colpa mamma e papà perché non avevano concesso l'accesso al Sacro Tempio della televisione a pagamento, e ora, con più chili e infinitamente più rancore accumulato, hanno trovato la giustificazione perfetta: chiamare "coscienza di classe" quello che è sempre stato un capriccio infantile mai metabolizzato.

Nella loro narrazione epica, Disney Channel non era semplicemente un canale televisivo che alcune famiglie avevano e altre no, ma il simbolo tangibile della stratificazione sociale, l'emblema dell'oppressione capitalistica, il Moloch che divorava i sogni proletari. Ma prendiamoci in giro fino a un certo punto: Disney Channel era televisione commerciale, non il club segreto dei Rothschild, era entertainment per famiglie con un reddito leggermente superiore alla media, non un complotto massonico per umiliare i meno abbienti, eppure per loro è diventato l'epopea della propria inadeguatezza sociale, la bandiera sotto cui marciare nella guerra santa contro i ricordi d'infanzia altrui.

Ed eccoli lì, i rivoluzionari del telecomando, i Che Guevara dei cartoni animati, pronti a decapitare virtualmente chiunque osi confessare di aver seguito le avventure di Raven Baxter, mascherandosi da paladini della giustizia sociale mentre il loro modus operandi tradisce la vera natura: usano lo stesso identico trucco che utilizzavano da bambini. Ieri ricattavano emotivamente i genitori per ottenere l'abbonamento Sky, oggi tentano di far sentire in colpa sconosciuti su Internet per aver avuto quello stesso abbonamento - non è evoluzione della coscienza sociale, è semplicemente piagnisteo 2.0 con aggiornamento digitale. La strategia rimane invariata: se non posso averlo io, deve essere moralmente sbagliato che tu l'abbia avuto, se i miei genitori non potevano permetterselo, allora i tuoi erano automaticamente dei borghesi sfruttatori. È la democrazia dell'invidia mascherata da lotta di classe.

Il risultato finale è una caricatura grottesca: ex bambini frustrati che non hanno mai imparato l'arte civilizzata del desiderare senza odiare, ora arruolati in un esercito ridicolo di soldatini da tastiera che combattono guerre immaginarie contro cartoni animati di vent'anni fa, convinti di star abbattendo il capitalismo globale una serie Disney alla volta. Hanno sostituito le lacrime in cameretta con i rant sui social network, ma la sostanza psicologica è rimasta identica: mocciosi invecchiati male, convinti di essere rivoluzionari perché si arrabbiano sistematicamente con chi ha guardato programmi televisivi che loro non potevano permettersi.

Alla fine, questa non è altro che invidia organizzata con pretese intellettuali, il trionfo di chi ha trasformato le proprie frustrazioni personali in una crociata universale, spacciando per coscienza politica quello che rimane, fondamentalmente, il rancore di chi non ha mai superato le delusioni dell'infanzia. Il vero capolavoro di questa operazione è aver convinto se stessi che odiare Disney Channel equivalga a combattere le ingiustizie sociali - è come credere che boicottare i gelati Häagen-Dazs possa risolvere la fame nel mondo: tecnicamente correlato alla questione economica, praticamente ridicolo nella sua sproporzione. Ma forse è proprio questo il punto: è più facile dichiarare guerra a Hannah Montana che affrontare le vere cause della disuguaglianza sociale, è più confortevole incolpare Disney Channel per i propri traumi infantili che riconoscere di non aver mai imparato a gestire la frustrazione in modo adulto. E così continua l'epopea: guerriglieri da divano che scambiano la nostalgia altrui per oppressione personale, rivoluzionari della tastiera che credono di cambiare il mondo un tweet indignato alla volta, mentre la rivoluzione Disney è servita e buon appetito, compagni.

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