UN MAGGIORDOMO IN GUERRA
L’uranio impoverito è un po’ come il mostro sotto il letto: non l’ha mai visto nessuno, ma da decenni fa paura solo a nominarlo. Appena si parla di missioni militari, di Balcani, di soldati malati, eccolo che ritorna: il colpevole perfetto. Invisibile, silenzioso, impossibile da verificare a occhio nudo, ma proprio per questo utilissimo per spiegare ogni male, dal linfoma alla gastrite. E se aggiungiamo che ha un nome che sembra uscito da un film di fantascienza – “depleted uranium” suona come un supercattivo con la crisi economica – ecco che la leggenda è servita.
La realtà, però, è decisamente meno affascinante. Quando negli anni ’90 scoppiò il caso, si mise subito in piedi la Commissione Mandelli, un gruppo di esperti chiamati a stabilire se davvero questi proiettili radioattivi stessero seminando tumori. Con grande delusione dei complottisti, la risposta fu un no. Nessun nesso causale. Un verdetto freddo, razionale, quasi noioso. E da lì in avanti, anche altri organismi di peso – l’OMS, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, l’ONU, la NATO – si sono presi la briga di fare i conti: polveri analizzate, statistiche confrontate, popolazioni monitorate. Esito? Sempre lo stesso: niente prove, niente aumenti significativi di tumori, né nei soldati né nei civili che hanno continuato a vivere tra le macerie e i residui dei bombardamenti. Insomma, una delusione per chi voleva il grande colpevole occulto.
Ma la scienza, si sa, non fa audience. Provate voi a spiegare a un reduce malato che il suo tumore non ha nulla a che vedere con i proiettili che ha visto esplodere a due metri di distanza. Provate a dire a una famiglia che le polveri che respiravano da anni non c’entrano con la malattia del figlio. I numeri possono essere inattaccabili, ma non hanno il potere di placare la paura. Anzi, spesso la alimentano: perché più i tecnici dicono “non ci sono prove”, più la gente sospetta che ci sia sotto un complotto. Il paradosso è servito: l’uranio impoverito non ha fatto ammalare intere popolazioni, ma ha fatto ammalare di diffidenza l’intero dibattito pubblico.
E allora ecco che arrivano le commissioni parlamentari italiane, che a inizio anni Duemila spuntano come funghi dopo la pioggia. Convocano esperti, medici, militari, parenti, ascoltano storie strazianti e presentano rapporti che alla fine dicono sempre la stessa cosa: non abbiamo trovato nulla, ma non possiamo nemmeno lasciare soli i nostri soldati. E così si partoriscono documenti pieni di cautele, virgole, subordinazioni, in cui il messaggio implicito è: la scienza dice no, ma la politica deve dire “forse”. Perché nessun deputato si guadagna applausi dicendo “state tranquilli, non c’è pericolo”, mentre molti consensi arrivano se si promette di “fare luce” e “non lasciare nessuno indietro”.
Nel frattempo, l’uranio impoverito diventa una specie di star televisiva. Non brilla, non lampeggia, non emette luce verdastra come nei fumetti, ma riesce lo stesso a monopolizzare talk show, servizi giornalistici e prime pagine. È perfetto: invisibile e scientifico al punto giusto, con quella dose di mistero che fa vendere copie e genera click. Non è un caso se torna ciclicamente come tormentone mediatico: ogni volta che si parla di militari malati, di missioni all’estero o di rapporti scomodi, lui ricompare puntuale.
La verità, però, è che la sua forza non è sanitaria ma sociologica. L’uranio impoverito non ha fatto esplodere i registri dei tumori, ma ha fatto esplodere la sfiducia nelle istituzioni. È diventato il simbolo di una frattura: da un lato i numeri, le statistiche, gli studi; dall’altro le paure, le testimonianze, le emozioni. E tra questi due mondi si muove la politica, che un giorno si appoggia alla scienza per difendere le missioni NATO, e il giorno dopo cavalca le paure dei cittadini per chiedere giustizia. Un equilibrismo perfetto, dove nessuno si fida di nessuno, ma tutti continuano a parlare dello stesso fantasma.
Così, anche dopo decenni di studi che dicono chiaramente “non ci sono prove”, l’uranio impoverito resta in vita. Non come sostanza letale, ma come mito politico. Non come pericolo sanitario, ma come metafora collettiva. Non ha fatto ammalare i polmoni dei civili, ma ha reso cronica la malattia del dibattito italiano: l’incapacità di distinguere tra dati e sospetti, tra prove e paure. E forse è proprio questo il suo paradossale trionfo: essere ricordato più come spauracchio culturale che come problema medico. Ogni epoca ha bisogno del suo mostro invisibile. Il nostro, a quanto pare, si chiama uranio impoverito.
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