COLAZIONE INDIGESTA
C'è qualcosa di profondamente ironico nel fatto che una delle canzoni più allegre degli anni Settanta nasconda in realtà un veleno sottile, servito con il sorriso di chi sa benissimo cosa sta facendo. "Breakfast in America" dei Supertramp è esattamente questo: una trappola zuccherina che ti cattura con la sua melodia spensierata per poi lasciarti con un retrogusto amaro, come quando scopri che il caffè americano è in realtà acqua sporca con pretese.
Roger Hodgson canta con quella voce quasi infantile di chi guarda l'America con gli occhi spalancati del turista europeo che ha creduto troppo alle cartoline patinate. "Could you tell me where my country lies?" – un'ammissione di sradicamento, di non-appartenenza, mascherata da curiosità turistica. Non siamo di fronte all'eroe conquistatore del Nuovo Mondo, ma a un povero sognatore che si aggrappa a quello che ha, sperando che dall'altra parte dell'oceano la vita sia più generosa.
Ma è proprio qui che i Supertramp dimostrano la loro maestria. L'America di cui cantano non è quella reale – con le sue contraddizioni e il suo capitalismo feroce – ma quella *immaginata*, quella costruita da Hollywood e dalla pubblicità della Coca-Cola. È l'America come Disneyland permanente, dove tutto funziona, tutti sorridono, e la colazione è sempre abbondante. La genialità sta nel fatto che questa critica non viene urlata, ma servita dentro una melodia pop perfetta, con un ritornello che ti resta in testa per giorni.
La copertina dell'album è il manifesto visivo di questa strategia. Quella cameriera vestita da Statua della Libertà, con il succo d'arancia al posto della torcia, è una delle immagini più corrosive degli anni Settanta. Stai riducendo il simbolo della libertà a una commessa di un diner. L'America come luogo di servizio, dove tutto è in vendita, dove persino i simboli più sacri diventano merchandise per turisti.
E poi c'è quella frase: "Breakfast in America". Perché proprio la colazione? Perché è il pasto dell'inizio, della promessa, del nuovo giorno che porta infinite possibilità. Ma è anche il pasto più standardizzato, più industrializzato: cereali in scatola, caffè annacquato, pancake che sanno di cartone. È la metafora perfetta del sogno americano stesso: promette abbondanza ma consegna omogeneità; promette libertà ma offre conformismo.
La vera cattiveria dei Supertramp sta nel fatto che loro, come inglesi trasferitisi in California, conoscevano benissimo entrambi i lati dell'Atlantico. Sapevano quanto fosse radicato in Europa questo feticismo per l'America, questa idea che dall'altra parte ci fosse un posto dove reinventarsi. E sapevano anche quanto questa fantasia fosse solo una fantasia.
Ma ecco la parte davvero caustica: mentre la canzone smonta il mito americano, allo stesso tempo lo perpetua. Quella melodia è così dannatamente orecchiabile che la canzone stessa diventa parte del sistema che critica. È come se i Supertramp dicessero: "Sì, è tutto falso, ma la falsità vende, e anche noi abbiamo bisogno di vendere dischi". Un'onestà spietata mascherata da leggerezza pop.
Alla fine, cosa ci resta? Un pezzo che continua a suonare nelle radio e che la maggior parte delle persone canticchia senza cogliere il veleno nascosto. Forse è questo il destino di ogni critica sociale nell'era del capitalismo: essere assorbita, neutralizzata, rivenduta come intrattenimento innocuo. I Supertramp lo sapevano già nel 1979.
Perché il vero scherzo è che tutti noi continuiamo a cercare quella colazione perfetta in un'America che non è mai esistita. E mentre la cerchiamo, qualcuno ci sta vendendo cereali in scatola spacciandoli per libertà. Forse perché l'illusione, quando è confezionata bene, è più confortante della realtà. E i Supertramp, maledetti loro, lo sapevano benissimo.
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