LE 1000 LIRE DEL NONNO

Il recente episodio che vede Donald Trump impegnato nel suo ruolo di "nonno burbero" nei confronti di Volodymyr Zelensky non è solo una curiosa scenetta da commedia politica, ma un frammento di una dinamica geopolitica più ampia che racconta molto del mondo in cui viviamo. Il presidente americano, tornato al centro del palcoscenico internazionale, gioca con la diplomazia come fosse un reality show, alternando promesse di sostegno e minacce di controllo, e lo fa con quella miscela di pragmatismo calcolato e spettacolarità che è diventata la sua firma. 

L'idea di fornire missili Tomahawk all'Ucraina — "più o meno", come ha detto con la solita disinvoltura — non è solo una questione militare, ma un simbolo di potere, un messaggio al mondo: l'America resta il distributore ufficiale di sicurezza globale, ma a condizioni che stabilisce lei. Trump chiede a Zelensky di spiegare "dove intende usarli", come se il rapporto tra Stati Uniti e Ucraina fosse quello tra un adulto diffidente e un adolescente con le mani troppo curiose. È un modo per riaffermare la gerarchia, per ricordare a Kiev che la sua libertà d'azione è sempre subordinata al benestare di Washington. 

Ma la metafora paternalistica non basta a spiegare cosa sia davvero in gioco. Ogni sistema d'arma fornito non è semplicemente un'arma: è un nodo di una rete di subordinazione tecnologica, logistica, informativa. Il Tomahawk non è solo un missile, è un algoritmo di influenza. Chi lo riceve accetta implicitamente una dipendenza che va oltre l'oggetto materiale: accetta codici di lancio, protocolli operativi, intelligence condivisa, manutenzione perpetua. Gli Stati Uniti non mantengono la pace nonostante distribuiscano armi, ma tramite la distribuzione di armi, perché la dipendenza militare crea vincoli politici più forti di qualsiasi trattato. Questo non è un paradosso della politica americana: è una strategia deliberata, collaudata, efficace.

Zelensky, da parte sua, recita il ruolo che la diplomazia gli impone: promette responsabilità, invoca la difesa, assicura che i missili saranno diretti solo contro "obiettivi militari". Ma questa narrativa di autodifesa, pur fondata, resta appesa a un filo sottile, perché ogni decisione militare ucraina si inserisce in una trama di equilibri internazionali in cui la guerra diventa anche teatro politico. E mentre l'Ucraina cerca di riaffermare la propria sovranità, gli Stati Uniti ricordano al mondo che anche la solidarietà ha un prezzo, e che ogni Tomahawk consegnato è accompagnato da un invisibile filo che riconduce al potere americano.

Sullo sfondo, il Cremlino reagisce con la prevedibile enfasi apocalittica: Putin denuncia l'escalation, minaccia rappresaglie, agita lo spettro della rottura definitiva con Washington. È una retorica collaudata, utile per alimentare il senso di accerchiamento interno e per ribadire la narrativa della Russia vittima dell'espansionismo occidentale. Sarebbe un errore, però, liquidare questa performance come mera propaganda inefficace. La retorica funziona anche quando è trasparente, forse soprattutto quando è trasparente. La ripetizione non è un difetto del copione, ma la sua strategia: normalizza l'idea dell'escalation, prepara il terreno simbolico per gesti che altrimenti apparirebbero improvvisi, costruisce un orizzonte di attesa in cui l'impensabile diventa plausibile. La minaccia, anche quando rituale, modifica gli equilibri proprio perché potrebbe non esserlo. È questo il potere della performance ripetuta: trasforma la possibilità in probabilità percepita, e la percezione in realtà politica.

Dietro le parole di Mosca c'è comunque una realtà più complessa: il potere nucleare russo non si traduce automaticamente in libertà strategica, perché anche il Cremlino è vincolato da equilibri economici, alleanze incerte e un isolamento crescente. Putin gioca una partita in cui le carte forti sono poche e devono essere agitate continuamente, mostrate ma non calate, perché usarle significherebbe perdere.

In questo intreccio, Trump riesce a presentarsi come il garante di un ordine che lui stesso ha contribuito a destabilizzare. Si atteggia a mediatore di pace, ma brandisce strumenti di guerra; parla di contenimento, ma pratica la minaccia; invoca la prudenza, ma alimenta la tensione. Non si limita a fornire missili: offre una rappresentazione del potere americano, costruita sull'idea che comandare significhi controllare, e che la forza valga più della fiducia.

Ciò che emerge è un sistema internazionale sempre più performativo, dove le relazioni tra Stati si modellano sulle personalità dei leader più che su principi o trattati. Ma attenzione: questa personalizzazione della politica non è una peculiarità dell'epoca Trump, né una degenerazione recente della diplomazia. La diplomazia è sempre stata anche teatro — dai congressi ottocenteschi alle conferenze di Yalta, dalle strette di mano di Camp David ai vertici del G7. Ciò che è cambiato non è la natura del gioco, ma la sua trasparenza forzata. Oggi non assistiamo tanto alla nascita di un sistema personalizzato quanto alla sua messa in scena permanente: vediamo in tempo reale, attraverso tweet, dirette, leak strategici, ciò che un tempo avveniva nei retroscena diplomatici. 

Trump non inventa la diplomazia-spettacolo, la rende semplicemente più esplicita, quasi sfacciata, perché ha compreso che nell'era dei social media la forma è sostanza, e che il consenso si costruisce sull'impressione prima che sul risultato. Le decisioni si prendono davanti alle telecamere, le minacce si twittano, la diplomazia si misura in battute e immagini virali. Trump, Zelensky e Putin sono tre archetipi di un'epoca in cui la comunicazione è diventata la nuova arma strategica, forse più decisiva dei Tomahawk.

Ma qui si annida la conseguenza più inquietante: se tutto è percezione, se la politica internazionale è diventata una questione di narrative control, allora la realtà materiale — i morti, le distruzioni, gli esodi — rischia di diventare accessoria rispetto alla narrazione. Non si combatte più per conquistare territori o risorse, ma per imporre una versione credibile della realtà. La guerra non è più dietro le quinte pronta a entrare in scena: è già in scena, solo che si presenta sotto forma di immagini, dichiarazioni, leak strategici, sanzioni simboliche, consegne di armi annunciate ma non confermate. Il conflitto materiale è solo una delle sue modalità di manifestazione, non necessariamente la più decisiva. 

Così, il destino di interi Paesi si intreccia con le narrazioni di pochi uomini, e il dibattito internazionale si riduce a una competizione tra percezioni. L'episodio dei Tomahawk, nella sua apparente leggerezza, è quindi un microcosmo del presente: un mondo dove la sicurezza è merce di scambio, la diplomazia è teatro e la guerra, anche quando non esplode, permea ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio. Un mondo dove la distinzione tra palcoscenico e retrosce­na è collassata, e dove il problema non è che la politica internazionale sia diventata spettacolo, ma che lo spettacolo abbia conseguenze così concretamente, tragicamente reali.

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