L'UOMO DI PAGLIA
Ogni volta che qualcuno sciopera o manifesta, parte il rosario dei benpensanti che dicono “Sì, certo, è un diritto. Ma non deve danneggiare i cittadini”. È la frase preferita di chi ama la libertà solo quando resta chiusa in un cassetto. Il diritto di sciopero viene accettato solo se è sterilizzato, igienizzato, privo di sintomi. Come uno shampoo “senza lacrime”, lava ma non disturba. Peccato che uno sciopero che non disturba non esista. È come immaginare un incendio che scalda ma non brucia o una manifestazione del silenzio. Lo sciopero serve a interrompere la normalità, a mostrare che senza certi lavoratori il mondo si ferma. Ma provate a dirlo, e vi guarderanno come se aveste bestemmiato in chiesa.
Viviamo nell’epoca in cui tutto deve funzionare e il disagio è considerato un peccato mortale. I pendolari si sentono vittime di un complotto ogni volta che un treno si ferma per protesta. I giornali, diligenti, si allineano con titoli come “Paese ostaggio degli scioperi”. Sembrano scritti da un’agenzia di PR del potere, sempre pronta a trasformare i diritti in delitti. È la solita commedia in cui lo sciopero, nato per dare voce ai più deboli, diventa nella narrazione mediatica un atto di prepotenza. Qui entra in scena il capolavoro logico della fallacia dell’uomo di paglia.
Il meccanismo è semplice. Si prende l’idea reale, quella del diritto di scioperare per difendere condizioni di lavoro e dignità, e la si sostituisce con una caricatura comoda del tipo “i lavoratori fannulloni che non pensano ai cittadini”. Poi si attacca quella caricatura. È come inventarsi un vegano che divora bambini per criticare il vegetarianesimo. Così, invece di discutere sul senso politico dello sciopero, ci si concentra sul fastidio che provoca. Non sui motivi ma sul traffico, non sulla giustizia ma sulla puntualità. Un perfetto esempio di distrazione di massa.
Mentre i moralisti da tastiera si indignano per le code ai tornelli, nessuno si scandalizza per i tagli alla sanità, per i salari fermi da vent’anni o per gli appalti al ribasso che trasformano i lavoratori in schiavi a partita IVA. Lì il disagio è strutturale ma non fa rumore, quindi non esiste. È più comodo prendersela con i ferrovieri, colpevoli di aver rovinato la gita a Firenze.
C’è anche la doppia morale del disagio. Se una città è bloccata per una finale di Coppa si parla di “festa di popolo”. Se le strade vengono chiuse per una processione si dice che è “una tradizione sentita”. Code chilometriche, trasporti fermi, piazze occupate: tutto accettabile, anzi commovente. Quando però il disagio nasce da chi rivendica un diritto, improvvisamente diventa inaccettabile. La violenza dei tifosi si chiama passione, quella di chi ferma il lavoro per dignità si chiama ricatto. Lo stesso cittadino che canta l’inno allo stadio o si inginocchia in chiesa diventa, ventiquattr’ore dopo, un ostaggio indignato se uno sciopero gli fa saltare il treno. È la teologia del doppio standard, quella in cui la fede e il tifo uniscono e i diritti dividono.
Ogni volta che un ministro o un editorialista parla di “sciopero civile”, bisognerebbe chiedergli cosa intende. Di solito significa uno sciopero che non si vede, non si sente e non disturba nessuno. In altre parole, inutile. Il sogno del potere è un popolo che protesta in silenzio, con preavviso e autocertificazione. Uno sciopero educato, che chiede scusa per l’incomodo.
La retorica della “tutela dei cittadini” serve a nascondere una verità elementare: i cittadini sono gli stessi che scioperano. Non esiste un popolo di lavoratori contrapposto a un popolo di utenti, se non nella fantasia di chi deve dividere per governare. È lo stesso trucco usato per opporre operai del pubblico e del privato, precari e garantiti, giovani e pensionati. Divide et impera in versione moderna.
Nel frattempo, le leggi che “regolano” lo sciopero o il diritto di manifestare lo addomesticano fino a renderlo innocuo. Si può scioperare, certo, ma solo di pomeriggio, con due mesi di preavviso, garantendo metà dei servizi e magari sorridendo. Uno sciopero discreto, impercettibile, perfetto per chi comanda. Così si mantiene la facciata democratica mentre se ne svuota il contenuto. È una lenta anestesia sociale.
E alla fine lo sciopero diventa un ricatto, i lavoratori dei corporativi, le rivendicazioni dei capricci. È l’ennesimo ribaltamento semantico per cui chi si difende viene accusato di attaccare, chi subisce viene accusato di creare disagio. È come se il ladro accusasse il derubato di avergli fatto male alla mano durante il furto.
Il diritto di sciopero e di manifestare il dissenso è fastidioso, e deve esserlo. È l’unico linguaggio che il potere capisce, quello dell’interruzione. Chi oggi invoca più regole per renderlo compatibile con tutto, in realtà vuole renderlo compatibile con niente. Il conflitto sociale piace solo quando è passato e può essere celebrato come storia. Le lotte di ieri appaiono nobili, quelle di oggi fastidiose. È il modo elegante per dirsi che il progresso è finito e che, da ora in poi, bisogna solo non disturbare.
Ma disturbare è il cuore stesso della democrazia. Senza disagio non c’è cambiamento, solo abitudine. Ogni volta che un giornale scrive “sciopero, cittadini in ostaggio”, ricordiamoci che la vera prigione non è quella dei treni fermi o dei ritardi ma quella del pensiero intrappolato in argomentazioni fasulle.
La prossima volta che vedrete un titolo simile, pensate che la vera gabbia non è fatta di binari occupati ma di menti rassegnate. Disturbare è la grammatica della democrazia; chi vuole cancellarla sta chiedendo che la democrazia parli solo a voce bassa.
Commenti
Posta un commento