PER ELISA


Ancora una volta. Un'altra maledetta ennesima volta. Una donna di 49 anni, Elisabetta Polcino, ammazzata a colpi di pietra dal marito in fuga, un femminicidio che dovrebbe inchiodarci tutti al silenzio e al rispetto per una vita spezzata. Eppure eccoci qui, a trasformare il suo sangue in un ring per i soliti duelli verbali, dove la vera vittima scompare sotto una coltre di benaltrismo così spessa da soffocarci quasi. Un giornalista prova con un tweet asciutto e tagliente a riportarci all'essenza: c'è una sola vittima, è di lei che dobbiamo parlare, solo di lei. Una donna trovata in un lago di sangue da una suocera attonita, che merita il nostro cordoglio, non le nostre speculazioni. Ma no, non ci va bene: dobbiamo subito deviare, complicare, aggiungere strati di retorica inutile. Arriva puntuale il commentatore di turno con il suo sarcasmo da quattro soldi, a insinuare che la giustizia italiana avrebbe due pesi e due misure, che l'assassino magari sarebbe trattato da vittima se appartenesse a una certa categoria protetta, e zac, ecco servito il diversivo perfetto per seppellire la donna sotto una montagna di polemiche su immigrati, istituzioni e chi più ne ha più ne metta.

E non finisce lì, perché persino dopo il richiamo alla decenza, qualcuno deve per forza buttare lì un "dovremmo parlare di tutte le vittime, no?", come se questo lutto fosse un'occasione per un censimento generale, una check-list da completare mentre il corpo è ancora caldo. Ma davvero, ci rendiamo conto di quanto siamo diventati abili a perdere di vista l'umano sotto il peso delle nostre agende? Il benaltrismo, quel vizio tutto italiano di dire "sì, ma il problema è un altro", ci sta divorando, trasformando ogni tragedia in un talk show improvvisato dove la vittima diventa un pretesto, un'ombra sfocata dietro le nostre crociate ideologiche.

C'è solo lei, dannazione: una donna, una madre, un essere umano finito sotto i colpi di una pietra e di una follia che non ha bisogno di etichette politiche per essere condannata. Eppure, invece di piangerla, la seppelliamo sotto valanghe di "sì, ma", di "anche", di "però", come se il suo nome fosse troppo semplice per reggere il peso delle nostre discussioni da bar. Peggio ancora, la usiamo come pedina in un gioco di potere mediatico, dove la sua morte diventa un trofeo da sventolare per dimostrare chissà quale punto.

Siamo diventati maestri nell'arte di svuotare le tragedie del loro peso umano, di trasformarle in munizioni retoriche per battaglie che non c'entrano nulla con il sangue versato. Ogni morte violenta è ormai solo un'occasione per riaffermare le proprie convinzioni preconfezionate, per tirare acqua al proprio mulino ideologico, per dimostrare che avevamo ragione noi, sempre noi, mentre il cadavere si raffredda nell'indifferenza generale mascherata da indignazione strumentale.

Che schifo, davvero, perché alla fine di tutte queste chiacchiere, della vittima non resta che un'eco lontana, soffocata dal rumore assordante del nostro benaltrismo insopportabile. Abbiamo imparato a ballare sul sangue con tale disinvoltura che non ci accorgiamo nemmeno più di farlo. E mentre noi discutiamo, polemizziamo, deviamo, lei – quella donna che meritava semplicemente di essere ricordata, pianta, rispettata – diventa invisibile, inghiottita dalla nostra incapacità collettiva di stare zitti di fronte al dolore e limitarci a essere umani.

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