POLITICA OMEOPATICA
"Non voto!"
Una frase che si sente ormai sempre più spesso — e, ironia della sorte, sempre più spesso da persone che mostrano una consapevolezza politica superiore alla media. Persone che leggono i fenomeni, che riconoscono le derive autoritarie, che vedono il vuoto progettuale della sinistra e denunciano il cinismo del potere. Persone lucide, disincantate, critiche. Eppure, proprio nel momento in cui potrebbero esercitare la più minima ma concreta forma di potere individuale dentro una democrazia rappresentativa, scelgono di astenersi.
È un gesto che si ammanta di dignità morale, di coerenza intellettuale, di protesta silenziosa: “non mi riconosco in nessuno”, “nessuno mi rappresenta”, “tanto non cambia nulla”, "non mi piace quel leader". E così, in nome di un ideale non realizzato, si rinuncia alla possibilità di incidere anche solo in modo infinitesimale sul reale.
In questo atteggiamento c’è qualcosa di profondamente filosofico: l’idea che la realtà debba prima conformarsi a un ideale per meritare il nostro intervento. Ma la storia – e la politica, che della storia è la forma quotidiana – ha sempre funzionato all’inverso. Non si parte dall’ideale per costruire la realtà: si parte dalla realtà, con tutte le sue storture, per provare ad avvicinarsi, passo dopo passo, all’ideale.
Chi diserta il campo perché il gioco non è perfetto, finisce per lasciarlo in mano a chi vuole truccarlo, dominarlo o distruggerlo. L’astensionismo, politicamente, è una resa travestita da purezza. Non è un rifiuto del sistema: è l’accettazione passiva del suo peggior esito. Chi non vota non si chiama fuori — semplicemente permette che altri decidano per lui, spesso contro di lui.
Le piazze piene e le urne vuote raccontano la contraddizione più profonda del nostro tempo: una partecipazione emotiva senza traduzione politica. Un popolo che sa indignarsi, ma non sa più scegliere. Che grida “democrazia” nei cortei, ma rinuncia al suo strumento più elementare.
Questa distanza tra la piazza e l’urna non è solo un paradosso: è un segnale di crisi civile. Indica che abbiamo ridotto la partecipazione a un atto performativo, spettacolare, visibile, ma abbiamo smarrito la fiducia nel processo lento, quotidiano e anonimo che fa funzionare una democrazia. L’astensione, in fondo, è la versione politica di questa cultura del gesto: l’idea che l’immediatezza valga più della costruzione, che la purezza conti più del compromesso, che la rabbia sia più autentica della responsabilità.
E il prezzo di questo disincanto è altissimo. Le urne vuote non sono soltanto simboli di sfiducia: sono strumenti di potere. Le elezioni non si annullano per mancanza di pubblico — si tengono lo stesso, solo che il pubblico diventa selezionato. E chi resta, decide. Chi vota, conta. Chi si tira indietro, scompare.
Disertare le urne è dunque un atto politico, ma non nel senso nobile del termine. È una scelta che ha conseguenze, anche se chi la compie preferisce immaginarla come un gesto innocuo. Perché è proprio l’idea che la democrazia possa sopravvivere senza partecipazione a renderla fragile.
Una democrazia senza cittadini attivi si svuota, diventa un rito stanco, un guscio pronto a essere occupato da chi non ha alcuna intenzione di rispettarne le regole.
E allora sì: tra tutte le risposte possibili alla crisi della politica, il disimpegno è la più pericolosa. Perché non ha l’onestà del conflitto, né la forza della proposta, né la radicalità del rifiuto. Ha solo il silenzio.
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