VIETATO NON ASCOLTARE
Qualche giorno fa, in una scuola di Cerea, nel veronese, quattro studenti sono diventati protagonisti involontari di una polemica per un gesto tanto minimo quanto simbolicamente denso: durante un momento di preghiera collettiva organizzato dall’istituto, si sono tappati le orecchie. Nessuna protesta, nessun insulto, nessuna interruzione: semplicemente, si sono chiusi al suono delle parole che non sentivano proprie.
Eppure, questo atto di sottrazione – piccolo, silenzioso, quasi infantile – è bastato a innescare la macchina disciplinare. Le autorità scolastiche hanno reagito con convocazioni, provvedimenti, richiami. Un gesto che, in un contesto realmente educativo, avrebbe potuto essere letto come esercizio di libertà di coscienza e di pensiero critico, è stato interpretato invece come una minaccia all’ordine scolastico, come una devianza da correggere.
La sproporzione della reazione è già, di per sé, rivelatrice. Rivela quanto la nostra cultura istituzionale sia ancora profondamente segnata da una concezione paternalistica dell’educazione, dove la libertà non è intesa come conquista, ma come concessione, e la disciplina non come autodisciplina, ma come obbedienza. È una logica antica, radicata nella storia italiana: quella del conformismo civile, di un’idea di comunità che confonde l’armonia con l’uniformità, la coesione con la subordinazione, la fede con l’obbligo di partecipazione.
In termini sociologici, potremmo dire che il gesto dei quattro studenti ha messo in crisi un rito collettivo fondato su una presunta unanimità simbolica. Ogni società costruisce se stessa anche attraverso riti condivisi, ma il valore di tali riti – religiosi, civili o nazionali che siano – dipende dalla libertà di aderirvi. Quando la partecipazione diventa automatica, o peggio, obbligata, il rito si svuota di senso e diventa strumento di controllo. In quel momento, il dissenso, anche il più silenzioso, diventa una forma di verità.
Il gesto di tapparsi le orecchie non è un atto di esclusione, bensì di autodeterminazione. È il corpo che si fa linguaggio politico, che afferma la sovranità della coscienza individuale di fronte a un dispositivo collettivo. In una democrazia matura, tale gesto dovrebbe essere accolto come segno di consapevolezza: un adolescente che sceglie di non aderire a un rito religioso esprime, con il proprio corpo, la distinzione tra lo spazio pubblico e quello privato, tra la fede e la libertà di coscienza.
Ma l’Italia è ancora attraversata da una forma di “religione civile cattolica” che, pur essendo formalmente separata dallo Stato, continua a permeare le istituzioni, i linguaggi e i rituali pubblici. Così, la scuola – che dovrebbe essere laboratorio di pluralismo e di autonomia del pensiero – si trasforma nel luogo in cui il conformismo viene insegnato come valore civico. L’episodio di Cerea non è un’anomalia: è un sintomo. Un sintomo di una società che, pur proclamando la libertà di pensiero, non tollera la sua manifestazione concreta, soprattutto quando si traduce in un rifiuto visibile, anche se pacifico.
La reazione delle autorità scolastiche – formalmente educata, amministrativamente corretta – è un esempio perfetto di quella che potremmo definire violenza burocratica: una violenza che non si esprime attraverso il sopruso fisico, ma attraverso l’imposizione simbolica. È la coercizione travestita da responsabilità, il paternalismo mascherato da cura. Un tipo di autoritarismo gentile, che punisce non perché è minacciato, ma perché è infastidito dalla dissonanza, da ciò che non rientra nello schema dell’uniformità.
Dietro la severità dei richiami disciplinari, si nasconde una paura più profonda: la paura della libertà. Perché la libertà, quando è reale, implica la possibilità del dissenso, della non adesione, della scelta. E ogni scelta mette in discussione l’autorità che pretende di rappresentare il “bene comune” in forma unica e indiscutibile.
C’è un paradosso, quasi tragico, in tutto questo. La scuola, luogo deputato alla formazione del pensiero critico, si trasforma nel primo spazio in cui il pensiero critico viene sanzionato. Il gesto dei quattro ragazzi – minuscolo nella sua materialità, ma dirompente nel suo significato – ha mostrato quanto fragile sia la nostra tolleranza, quanto sottile sia la distanza tra l’educazione alla cittadinanza e la sua parodia autoritaria.
Si potrebbe dire che quei ragazzi, tappandosi le orecchie, hanno compiuto un atto pedagogico: hanno ricordato agli adulti che la libertà non è unanimità, ma pluralità; che il rispetto non si misura nella partecipazione obbligata, ma nel riconoscimento della differenza; che la fede autentica non ha bisogno del consenso, ma si nutre del dubbio e dell’ascolto interiore.
La vera lezione, dunque, non è per loro, ma per noi. Per una società che continua a confondere il rispetto con la sottomissione, la coesione con l’uniformità, e che si scandalizza di fronte a quattro mani che si chiudono sulle orecchie. Forse perché, in fondo, teme ciò che quel gesto rappresenta: la possibilità di dire “no” in silenzio, senza gridare, senza distruggere, ma con la sola forza di un atto consapevole.
È in gesti come questo – piccoli, ma eticamente limpidi – che si misura la maturità democratica di una nazione. E se davvero bastano quattro studenti che si tappano le orecchie per turbare la nostra quiete istituzionale, allora non sono loro a dover essere educati alla convivenza civile. Siamo noi, come comunità, a dover reimparare che la libertà non è una concessione dell’autorità, ma la sua misura.
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