VINCITORI E VINTI
C’è una linea invisibile ma profonda che divide chi parla per mestiere da chi parla perché sente.
Da una parte, chi usa il dolore come scenografia.
Dall’altra, chi davanti a quel dolore ancora si ferma, si spezza, si indigna.
È la differenza che separa Daniele Capezzone da Luca Telese.
Capezzone, ormai, è il perfetto automa del dibattito televisivo: preciso, impassibile, impermeabile.
Ha un talento raro: riesce a discutere di fame, bombe e morti come se stesse parlando di spread o di quote latte.
Nel suo mondo, non esistono tragedie umane, solo “argomenti da gestire”.
Così, nel suo ultimo numero da circo mediatico, eccolo brandire dei “documenti israeliani” come vangeli, accusando la Flottiglia per Gaza — un gruppo di attivisti internazionali che tenta di portare aiuti umanitari sotto embargo — di essere finanziata da Hamas.
Lo dice con la sicurezza di chi non ha dubbi perché non ha cuore.
Con la spavalderia di chi non si chiede mai se quello che ripete sia vero o solo utile.
E mentre parla, non c’è una sola parola sulle persone che a Gaza muoiono di fame, non un accenno ai bambini, agli ospedali, ai civili.
Solo accuse, etichette, insinuazioni: la flottiglia “filo-Hamas”, gli attivisti “complici del terrorismo”.
Una narrazione perfetta per un pubblico che non vuole capire, ma solo schierarsi.
È il metodo Capezzone: l’empatia è un ostacolo, il dubbio una debolezza.
Meglio semplificare, dividere, colpire.
Dall’altra parte c’è Telese.
Non un santo, non un martire, ma uno che ancora si commuove.
Uno che davanti all’ingiustizia non riesce a restare seduto a sorridere.
Ascolta quelle parole, quelle accuse, e scatta.
Dice “buffone”. Dice “vergognati”.
Non per insultare, ma perché c’è un limite oltre il quale la coscienza si ribella.
Poi si alza e se ne va.
E lì, puntuale, parte il coro social: “È scappato, ha perso!”.
No, non ha perso.
Ha semplicemente capito che discutere con chi non prova empatia è come spiegare la fame a chi si nutre di provocazioni.
Ha scelto di non respirare la stessa aria viziata.
Perché chi ha un cuore non può restare seduto accanto a chi lo ha messo all’asta.
Capezzone resta.
Trionfa nel vuoto dello studio, tra gli applausi automatici dei suoi fan da salotto.
Ma il suo è un trionfo di cartapesta: vince solo chi non sente, chi non si ferma mai a pensare alle conseguenze delle proprie parole.
Il provocatore non rischia nulla: non prova vergogna, non prova dolore, non prova nulla.
Telese, invece, fa la cosa più “sovversiva” che oggi si possa fare in televisione: se ne va.
E in quel gesto c’è tutta la differenza del mondo.
Perché chi non ha empatia può parlare all’infinito senza mai pagare dazio.
Chi ce l’ha, ogni parola la paga in nervi, in rabbia, in fatica.
E allora, sì, a volte deve alzarsi, uscire, respirare altrove.
Non è fuga: è igiene morale.
E alla fine, chi vince davvero?
Non chi resta a monologare nel vuoto, ma chi rifiuta di partecipare al funerale dell’umanità travestito da dibattito politico.
Perché in questo Paese dove la provocazione è un mestiere e l’empatia un difetto, l’unico gesto di forza rimasto è andarsene — a testa alta, e col cuore ancora funzionante.
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