AMOR PROFANO
Ah, guardate che scandalo perfetto: due cuori in fiamme scelgono una chiesa per celebrare il loro amore, e subito si scatena l’inferno morale. Il prete impugna la telecamera, la comunità insorge, si parla di profanazione e si preparano riti di riparazione. E allora viene da chiedersi: perché tanta furia? Perché trasformare l’eros in reato quando irrompe dove meno ce lo aspettiamo?
La risposta, per quanto scomoda, è semplice: non è l’eros il problema, ma il luogo. E soprattutto, il mancato rispetto per chi quel luogo lo abita quotidianamente con tutt’altre intenzioni.
Quella chiesa — che dovrebbe essere, sì, casa di tutti — è innanzitutto la casa di una comunità. Non un museo di marmo, come qualcuno direbbe con disprezzo, ma uno spazio vivo dove le persone portano le loro gioie e i loro lutti, dove battezzano i figli e piangono i morti, dove cercano conforto nelle crepe della vita. Per chi crede, è davvero tempio dello spirito. Per chi non crede, resta comunque uno spazio pubblico carico di significato condiviso.
L’amore carnale è preghiera antica, è vero. Due corpi che si cercano, si riconoscono, si celebrano: tutto questo è benedetto dalla vita stessa. Il Cantico dei Cantici canta la carne con parole di melograni e vigne, e nessun Dio degno di questo nome ha mai condannato il desiderio che Egli stesso ha acceso nelle vene umane. Ma c’è una differenza sostanziale tra celebrare l’eros e trasformarlo in trasgressione fine a se stessa.
I due ragazzi non hanno “solo sbagliato l’orario”, come si potrebbe dire con indulgenza complice. Hanno sbagliato il rispetto. Non verso un Dio vendicativo che conta i peccati col cronometro in mano, ma verso le persone — magari anziane, magari semplici — per cui quella chiesa non è palcoscenico ma rifugio, non simbolo astratto ma geografia intima dell’anima.
Esiste un mondo intero per amarsi: camere profumate, parchi al tramonto, spiagge dove il mare benedice ogni bacio. Non serve profanare [ed è questa la parola giusta, piaccia o no] uno spazio altrui per dimostrare che l’amore è libero. Anzi, la vera libertà sta proprio nel saper riconoscere i confini: nel rispettare ciò che altri considerano sacro, anche quando noi non lo facciamo.
Parliamo allora di ipocrisia, se vogliamo. Ma l’ipocrisia non sta in chi chiede rispetto per un luogo di culto. Sta semmai nel confondere ogni vincolo con repressione, ogni limite con paura, ogni regola con bigottismo. Sta nel credere che la maturità consista nel fare tutto ciò che si desidera, ovunque e comunque, senza considerare che la nostra libertà finisce dove comincia quella degli altri.
Il profumo di pelle sudata è più sincero di mille genuflessioni ipocrite? Forse. Ma la sincerità non è licenza di calpestare. L’amore vero — quello carnale incluso — sa contenere se stesso, non per paura del giudizio divino, ma per rispetto verso l’umano. Sa scegliere il momento e il luogo; sa riconoscere che esistono spazi dove il desiderio deve farsi da parte perché altri sentimenti, altrettanto sacri, possano respirare.
Non serve acqua santa per riparare questo scandalo. Serve semplicemente civiltà: quella capacità di convivere riconoscendo che il mondo non è solo nostro; che i luoghi hanno storie e memorie che ci precedono; che la vera trasgressione non sta nel fare l’amore in chiesa, ma nell’aver dimenticato che l’amore, quello autentico, include anche la delicatezza di non ferire chi sta pregando accanto a noi.
I due ragazzi hanno celebrato la vita, dici? No: hanno celebrato solo se stessi, con la spavalderia di chi crede che bastino due corpi accesi per santificare qualunque spazio. Ma la vita, quella vera, si celebra anche imparando a dire non qui, non ora — non per reprimere il desiderio, ma per custodirlo con quella sapienza che distingue l’amore dal capriccio, la passione dalla prepotenza.
Ecco l’unica benedizione necessaria: non quella dell’incenso sui pavimenti profanati, ma quella dell’educazione civile sui cuori troppo sicuri di sé. Perché l’amore, quando è davvero grande, sa farsi piccolo di fronte al sacro altrui.
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