CIAO GIORGIO
Oggi ci ha salutati a novantaquattro anni suonati, lasciandoci con un ghigno amaro e un foglio bianco che sa già di nostalgia. Perché, se c’è una cosa che il vecchio lupo della matita ci ha insegnato, è che la politica italiana è un circo dove i clown indossano completi da mille euro — e lui, con quel tratto obliquo e malizioso, era il direttore d’orchestra che ci faceva ridere mentre il tendone crollava addosso a tutti.
Immaginalo: nato a Roma nel ’31, con l’aria di chi ha visto Mussolini cadere e Craxi inciampare nei suoi stessi stivaloni. Invece di piangere, si è messo a disegnare. Nel ’71 vince un concorso al Paese Sera — come una lotteria di vignette — e bum, eccolo lì a immortalare Fanfani come un tappo che schizza via da una bottiglia con un gigantesco “NO” sull’etichetta, dopo il referendum sul divorzio del ’74. Un capolavoro: ridicolizza il nano della DC facendolo rimbalzare come un sughero ubriaco, e noi poveri mortali a ridere mentre l’Italia divorziava sul serio.
Poi arrivano Panorama, L’Espresso e soprattutto Repubblica, dove negli anni Settanta fonda il Satyricon con Staino ed Ellekappa — un nido di vipere satiriche che pungeva la pancia molle del potere. E Forattini? Lui era il re, con le sue quattordicimila vignette e tre milioni e mezzo di libri venduti. Un best seller ambulante con pennino al posto della penna, che ogni mattina sbeffeggiava i potenti come fossero pupazzi gonfiabili.
Spadolini nudo come un verme filosofo.
Craxi in camicia nera da mini-Duce, con gli stivali fino all’ombelico.
De Mita con la coppola da guappo di cartone.
Goria, un blob senza volto.
Prodi in tonaca da prete rosso, Veltroni bruco, Amato-Topolino, Bossi-Pluto, Renzi-Pinocchio.
Ce n’era per tutti, sinistri e destri. Forattini non le mandava a dire: era un anarchico col righello.
Nei giorni bui del terrorismo o delle stragi di mafia, ti disegnava la Sicilia come un coccodrillo piangente per Falcone, o Mani Pulite come un idrante che lavava via la melma. Ti faceva sorridere anche quando volevi solo urlare.
Nel 1982 approda a La Stampa: primo vignettista in prima pagina, quotidiano. Un caffè nero che ti svegliava con una sberla ironica. Addio ai disegnini timidi in fondo alla pagina: benvenuta la satira che morde il quotidiano in bocca.
Romano doc, direttore de Il Male, collaboratore instancabile con mezzo mondo editoriale, alla fine si ritira a Milano, forse per non sentire più i clacson di casa. Ci lascia un’Italia un po’ più grigia, senza il suo pennello che la colorava d’assurdità.
E sai che ti dico, Giorgio? Se lassù c’è un paradiso per vignettisti, scommetto che stai già schizzando Meloni come Calimero coi tacchi o Salvini come un galeotto in canottiera.
E noi quaggiù, tra un’elezione e un’inchiesta, alzeremo il calice — o il pennarello — a te, maestro del ghigno.
Perché ci hai insegnato che ridere è l’unica vendetta vera contro i buffoni del potere, e che un tratto di matita vale più di mille editoriali pomposi.
Ciao, Giorgio. E grazie per le risate. Quelle che non finiscono mai, nemmeno oggi.
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