COERENZA DINAMICA
Non c’è niente di più comodo che urlare “incoerenza!” dal divano, mentre qualcun altro si prende i lacrimogeni. È il passatempo preferito dei moralisti da social, che scambiano la complessità del reale per un talent show di coerenza. Peccato che il mondo non funzioni a misura di sofista digitale: la solidarietà non è un voto di matrimonio, è un cacciavite. Serve a svitare l’ingiustizia che hai davanti, non a sposare per sempre il set di credenze di chi stai aiutando. Chi pretende il contrario confonde l’etica con il tifo organizzato.
Oggi si ferma un pestaggio, domani si contestano le leggi omofobe, dopodomani si torna a discutere di dottrina. La coerenza non è restare immobili sotto una vetrina di principi immacolati: è tenere la barra dritta sui bersagli giusti, nell’ordine giusto. E nell’ordine giusto, viene prima chi sanguina.
Sostenere chi subisce violenza non significa firmare un’abiura della propria identità o diventare chierichetto di alcun credo. Significa riconoscere una priorità materiale: se qualcuno sta sotto le bombe o sotto un ginocchio, prima si toglie il peso, poi si parla del resto.
Chi obietta “ma loro condannano gli LGBT!” rivela una curiosa teologia del merito, come se i diritti fossero un programma fedeltà e la protezione della vita una promozione riservata agli amici degli amici. Ma i diritti non si accumulano in punti payback: si esercitano, anche quando l’altro ti irrita. Se la casa brucia, getti acqua: non chiedi prima al proprietario cosa pensa delle unioni civili.
La solidarietà non è un referendum sui valori totali, è un’alleanza a scopo limitato, dichiarata e revocabile. Colpisce l’ingiustizia contingente senza assolvere le ingiustizie strutturali dell’alleato di turno. Confondere la priorità con l’adesione è un trucco retorico così logoro che fa sbadigliare anche la coscienza: si può stare spalla a spalla contro la violenza oggi e fronte a fronte contro l’omofobia domani, allo stesso modo in cui si può difendere la libertà di parola di chi ti disprezza e poi smontarne le idee pezzo per pezzo.
Chi urla “propal!” come insulto crede di aver smascherato un complotto, ma ha solo scoperto che le lotte reali non profumano d’incenso: sanno di contingenza, di mani sporche, di compromessi necessari. E proprio perché le mani si sporcano, la solidarietà tattica funziona solo se dichiarata come tale. “Ti difendo da questa violenza specifica, non sposo il tuo progetto politico.”
Chi non sa tenere questa distinzione merita lo stesso disprezzo di chi brandisce i diritti LGBT come manganello selettivo, o come foglia di fico per giustificare altre violenze.
Basta con la trappola dei diritti usati come tessera morale a intermittenza. Non si salvano vite per dimostrare la superiorità di un campo: si salvano perché si salvano, punto. E si denunciano insieme le vetrinizzazioni opportunistiche quando diventano alibi.
Chiamatela coerenza dinamica, igiene morale o semplice buon senso: se oggi difendo chi subisce, non ho firmato una cambiale alla sua teologia, ho solo pagato il debito immediato alla dignità. Il resto — domande scomode incluse — ci aspetta fuori dall’emergenza, vivi, e possibilmente liberi di contraddirci a vicenda con tutta la forza necessaria.
Del resto, non sarebbe la prima volta: anche tra i Partigiani c’erano comunisti che sognavano uno Stato che, nella loro idea, avrebbe potuto trasformarsi in un altro regime. Ma allora si combatteva insieme un nemico più urgente, più concreto, più feroce: il fascismo. Lo si abbatteva prima, e poi — a guerra finita — si sarebbe combattuto anche quel comunismo, sul terreno della politica e della libertà. Così funziona la storia, e così funziona la dignità: prima si salva chi rischia di morire, poi si torna a discutere di idee.
Il mondo chiede priorità dolorose, non vetrine immacolate...la coerenza non è una vetrina: la solidarietà si misura nel fumo, non nell’incenso.
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