DIVIDI ET IMPERA


La separazione delle carriere dei magistrati è una di quelle idee che sembrano, a prima vista, di buon senso: “chi accusa non può essere anche chi giudica”. Una formula semplice, intuitiva, quasi liberatoria. Peccato che dietro questa apparente evidenza si nasconda un gigantesco equivoco. Perché il problema della giustizia italiana non è la mancanza di confini tra pubblici ministeri e giudici, ma l’incapacità cronica dello Stato di far funzionare la macchina della giustizia.

La narrativa della “promiscuità” tra accusa e giudizio è infatti un mito comodo: serve a spostare l’attenzione dal vero disastro – tribunali affollati, norme contorte, organici insufficienti, infrastrutture fatiscenti – verso un terreno ideologico più gestibile. È la classica “soluzione semplice a un problema complesso”, anzi: una soluzione simbolica a un problema reale.

Si cita spesso quel famoso 15-20% di magistrati che, nel corso della carriera, passano da un ruolo all’altro. È la prova della promiscuità, dicono. Ma se si guarda meglio, scopriamo che quella percentuale è cumulativa su decenni, e che i passaggi sono pochissimi, controllati, soggetti a criteri rigorosi. Non c’è alcuna porta girevole tra accusa e giudizio, solo un sistema che consente – in casi selezionati – una certa flessibilità.

Ma la flessibilità, in un corpo unico della magistratura, non è un vizio: è un equilibrio. È ciò che garantisce che chi giudica conosca anche la logica dell’indagine, e chi indaga abbia ben presente le esigenze della decisione. Rompere questo legame significherebbe creare due culture professionali parallele, e presto antagoniste: giudici e PM che non si riconoscono più come parti dello stesso potere, ma come due caste in conflitto.

La separazione delle carriere non nasce dal bisogno di giustizia, ma dal bisogno di consenso. È la bandiera di una certa politica che da anni ha costruito il proprio racconto contro la magistratura: “le toghe rosse”, “i giudici politicizzati”, “i processi a orologeria”. Un copione che parte da lontano, dal berlusconismo, e che oggi trova nuovi interpreti in Salvini e Meloni.

Così, ciò che in altri Paesi è una scelta organizzativa, in Italia diventa una resa dei conti. Altrove – in Francia, in Germania, nel Regno Unito – la separazione delle carriere funziona perché esiste un clima di fiducia tra poteri dello Stato. Da noi, invece, la fiducia è evaporata. E senza fiducia, ogni riforma rischia di diventare un’arma.

Ogni volta che si parla di separazione, qualcuno evoca Giovanni Falcone, ricordando che anche lui la sosteneva. Vero, ma con un dettaglio non irrilevante: Falcone lo diceva negli anni in cui la magistratura godeva di un’enorme credibilità sociale, quando i giudici erano visti come il baluardo dello Stato contro le mafie e la corruzione politica. Oggi quel capitale di fiducia è svanito, e il clima è ribaltato: la magistratura è percepita da molti come un potere invadente, “ideologico”, addirittura nemico.

Ma Falcone era d'accordo, dicono. Citare Falcone oggi, fuori dal suo contesto, è come brandire un’icona per coprire un’operazione opposta a quella che lui aveva in mente. Falcone parlava di efficienza, non di subordinazione. Difendeva la professionalità, non il controllo politico. Senza contare, ribadisco, che la Magistratura di allora aveva un consenso popolare che era la difesa immunitaria contro qualsiasi ingerenza virale politica.

Ma con Berlusconi è cambiato per sempre il linguaggio del conflitto tra politica e giustizia. Ha trasformato le inchieste in persecuzioni, le sentenze in complotti, i processi in spettacoli televisivi. Ha costruito un immaginario in cui la magistratura è il “partito dei giudici”, e chi viene indagato è sempre vittima di un abuso. Da allora, questo schema si è radicato nella cultura politica italiana.

Oggi lo ritroviamo, quasi senza filtri, nelle dichiarazioni di ministri e leader che parlano di “giustizia a orologeria” o di “toghe militanti”. Il risultato è una frattura culturale profonda: una parte dell’opinione pubblica non vede più la giustizia come un potere dello Stato, ma come un avversario politico. In questo clima, proporre la separazione delle carriere non è un gesto tecnico, ma un messaggio simbolico: “mettiamo i giudici al loro posto”.

Dietro la retorica della “terzietà” e dell’“equilibrio” si nasconde un obiettivo più concreto: ridurre l’autonomia del pubblico ministero. Perché se il PM diventa parte di un corpo separato, bisogna decidere chi lo governa. E tutte le proposte in campo tendono, più o meno esplicitamente, a metterlo sotto il controllo dell’esecutivo.

Da lì, il passo successivo è facile da immaginare: si limita l’obbligatorietà dell’azione penale, si stabiliscono le priorità politiche su cosa perseguire e cosa no. È la nascita di una giustizia selettiva, “a tema”, guidata dalle convenienze del momento.

Le riforme sulle intercettazioni, la responsabilità civile dei magistrati, le restrizioni alla pubblicità degli atti: tutto si muove nella stessa direzione. Si parla di “equilibrio dei poteri”, ma il risultato è una magistratura più debole, più prudente, più controllata.

Ogni democrazia vive di un patto implicito tra i poteri dello Stato: nessuno controlla l’altro, ma tutti si rispettano. Quando questo patto si rompe, le riforme istituzionali diventano strumenti di guerra. E oggi, in Italia, siamo esattamente in quella condizione: un clima di sospetto permanente, di vendette incrociate, di sfiducia reciproca.

In un contesto così fragile, anche una riforma in teoria neutrale può diventare tossica. Non perché sia sbagliata in sé, ma perché arriva nel momento peggiore, con le intenzioni peggiori e gli attori peggiori per gestirla.

Alla fine, la separazione delle carriere è un gesto simbolico: non risolve nulla dei problemi veri della giustizia – risorse, personale, tempi, infrastrutture – ma offre alla politica un trofeo da esibire. È una riforma che parla alla pancia dell’elettorato, non alla testa del sistema.

Non serve dividere le carriere, serve ricucire la fiducia. Non servono nuovi steccati, servono tribunali che funzionino, leggi comprensibili, tempi umani. Ma questa è la parte difficile, quella che non produce applausi né titoli. Ed è per questo che si preferisce la via più comoda: una riforma “contro qualcuno”, piuttosto che una riforma “per qualcosa”.

Commenti

  1. Questa è letteratura da Istat, vero che ci vuole tempo, che i tribunali sono incasinati, ma altro è separare i poteri!! La maggior parte degli avvocati sono d'accordo alla separazione, ma questo è un dato che l'ISTAT non dà

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  2. Cosa c'entrano gli avvocati con la "separazione delle carriere in Magistratura"? Certo che sono d'accordo, a loro fa comodo un PM debole.

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