FOGLIE CADENTI


Immagina di tenere in mano una foglia d’autunno, rossa come il sangue di un bambino che non ha ancora imparato a camminare. Ti chiedi perché cada proprio ora, proprio qui, mentre il vento non sa di essere vento e il cielo non sa di essere cielo.
Dio, se c’è, osserva la stessa foglia e tace: non perché sia sordo, ma perché il silenzio è l’unica lingua che non tradisce il dolore. La sofferenza dei piccoli è la crepa più netta nel cristallo della creazione, un graffio che nessuna teodicea riesce a lucidare del tutto. Eppure, proprio lì dove la logica si spezza, nasce la domanda che ci rende umani: non “perché accade?”, ma “come posso restare umano mentre accade?”.

Il libero arbitrio è una risposta antica quanto il peccato: un coltello a doppia lama che ferisce sia il carnefice sia la vittima. Ma un bambino malato di leucemia non ha scelto nulla: il suo midollo osseo è un campo di battaglia dove nessuno ha dichiarato guerra. Qui non c’è colpa umana da cui risalire a una libertà tradita, solo cellule impazzite in un corpo che non ha ancora detto “io”. Forse, allora, il male non è solo libertà malata, ma anche materia cieca: un universo che gira come un orologio rotto e ogni tanto stritola un granello di vita innocente.

E da lì emerge la domanda più radicale, quella che scuote le fondamenta di ogni sistema teologico: se Dio esiste, è complice del caso cieco? È un orologiaio che ha costruito meccanismi capaci di stritolare? Dio permette? O semplicemente non interferisce, come un poeta che lascia correre la penna anche quando scrive “dolore” in maiuscolo, accettando il rischio della penna libera anche quando traccia orrori?

Giobbe gridò, e Dio rispose dal turbine. Ma non spiegò: mostrò la balena, il Leviatano, le costellazioni — come a dire “guarda quanto è grande il mio disegno, e quanto piccolo il tuo dolore dentro di esso”. Eppure quella grandezza può sembrare indifferenza, quando sei tu il granello schiacciato. Il dolore non si lascia relativizzare: per chi lo vive, è l’universo intero. Nessuna balena cosmica può renderlo più piccolo. Quel “piccolo” è tutto ciò che abbiamo, e pretendere di consolarlo con la maestà delle costellazioni è come offrire astronomia a chi annega.

Un teologo direbbe che la croce di Cristo redime anche il pianto di un neonato; un ateo ribatterebbe che la croce è solo un altro chiodo nella carne dell’innocente. Entrambi hanno ragione a metà, perché la verità non sta nelle parole ma nel gesto: la madre che culla il figlio febbricitante alle tre del mattino, il medico che cerca una cura sapendo che potrebbe fallire, il vicino che porta una minestra senza chiedere spiegazioni. Questi gesti non risolvono il problema metafisico, ma lo attraversano. Non annullano il dolore: lo accompagnano. E forse questo è l’unico tipo di risposta che non tradisce — non concettuale, ma carnale.

La sofferenza infantile è il punto in cui ogni sistema crolla e resta solo l’atto nudo dell’amore. Non serve capire il perché per chinarsi a fasciare una ferita; serve solo decidere che la ferita non resterà sola. Forse Dio permette il dolore perché l’universo sia un laboratorio di compassione, e i bambini, i maestri più severi: ci insegnano che l’empatia non è un sentimento, ma una scelta ripetuta ogni volta che il mondo si spacca.

Eppure resta una domanda che non si può eludere, che non cerca risposta ma chiede di essere tenuta aperta: quel “laboratorio di compassione” — se davvero lo è — vale il prezzo? Un bambino con la leucemia è un prezzo accettabile perché altri imparino l’empatia? O è proprio qui che ogni teodicea naufraga definitivamente, e ci resta solo la scelta radicale: amare non perché ha senso, ma affinché ne abbia. È quasi una teodicea dell’azione, dove la giustificazione di Dio — se esiste — non sta nelle sue ragioni, ma nelle nostre ferite guadagnate tentando di curare. Come se il senso non fosse da trovare nel dolore, ma da costruire nonostante esso.

E se un giorno, dall’altra parte del velo, un bambino ci guardasse e chiedesse: “Perché non avete smesso di amarvi mentre io soffrivo?”, potremo rispondere solo mostrandogli le cicatrici delle nostre mani — quelle che abbiamo sporcato cercando di alleviare le sue. Non avremo spiegazioni, solo testimonianze. Non diremo “ecco perché dovevi soffrire”, ma “ecco cosa abbiamo fatto con la tua sofferenza: come l’abbiamo trasformata in compassione, in ricerca, in presenza”.

E forse, in quel silenzio più vasto del turbine di Giobbe, più onesto di ogni risposta teologica, basterà. Non perché risolve, ma perché non tradisce. Perché tiene insieme la ferita e la cura, il grido e la carezza, la foglia che cade e la mano che cerca di raccoglierla prima che tocchi terra. Il turbine resta aperto, ma dentro c’è una mano tesa. E quella mano non spiega niente, ma dice tutto.

E oggi, davanti al dolore, alla sofferenza, al martirio dei bambini — quelli di Gaza o di qualsiasi altra parte del mondo — ci giriamo dall’altra parte, o peggio, chiediamo di definirli. Come se ridefinendo la parola bambino potessimo alleggerire il peso della colpa, come se cambiare nome al dolore bastasse a cancellarlo. Ma ogni volta che chiediamo “chi è un bambino?”, è la nostra umanità che si incrina. E forse Dio, nel suo silenzio, tace proprio perché non può più parlare al posto nostro.

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