HO VISTO UN RE
La legge di bilancio 2026, quella perla di giustizia sociale all’italiana, che l’Istat ha appena spogliato con la grazia di un rinoceronte in un negozio di Swarovski. Oltre l’85% dei benefici fiscali finisce dritto nelle tasche dei ricchi, e non parliamo di qualche spicciolo da smarrire sotto il divano, ma di 2,9 miliardi che atterrano morbidi nel portafoglio del quinto più benestante del Paese, mentre al resto della popolazione toccano briciole da 102 euro l’anno, giusto l’equivalente di un caffè al giorno, ma solo se ti accontenti del decaffeinato del distributore. E la genialità è che è tutto così plateale che per non capirlo servirebbe una laurea in negazionismo economico: abbassi l’aliquota Irpef dal 35 al 33% per chi guadagna tra 28 e 50mila euro e, sorpresa!, chi ci guadagna davvero sono quelli sopra i 50mila, perché lì il taglio si applica per intero, come un prosecco millesimato servito solo ai tavoli VIP, mentre per chi sta sotto restano gli avanzi: un “grazie della partecipazione” da 200 euro che cambia la vita solo al commercialista che deve rifare i calcoli. È pura aritmetica, non magia nera: quando abbassi un’aliquota intermedia, il grosso del vantaggio va a chi guadagna di più, perché ogni euro che passa per quello scaglione gode dello sconto. È il sistema a scaglioni, bellezza, mica una cospirazione. Ma la vera domanda è: se volevi aiutare il “ceto medio in difficoltà”, perché proprio quello scaglione? Giorgetti lo dice con aria serissima che è tutto per il ceto medio, poveretto, deve averlo confuso con il circolo del golf. Secondo la Corte dei Conti e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, metà delle risorse va infatti a chi supera i 48mila euro, gente che chiama “problema” quando il cameriere sbaglia la schiuma del cappuccino. Se davvero volevano dare una mano a chi arranca, avrebbero potuto concentrare le risorse sui redditi più bassi o con bonus mirati a chi non arriva a fine mese, ma no: hanno scelto la fascia che garantisce il massimo effetto ai redditi alti. Non è un errore, è un progetto. È una feature, non un bug. E racconta esattamente a chi pensano quando scrivono le leggi. Intanto la povertà assoluta galoppa all’8,4% delle famiglie: 5,7 milioni di italiani sopravvivono con la carta “Dedicata a te”, mezzo miliardo di euro spalmato come burro rancido su milioni di panini vuoti, che fa 88 euro a famiglia, un’elemosina che non cambia nulla, mentre i ricchi brindano al nuovo sconto fiscale. E la disuguaglianza? Immutabile, dice la Banca d’Italia, ferma come un macigno sul petto di chi già respira a fatica. Perché la povertà non la curi con gli spicci, ma con politiche redistributive serie: salario minimo, scaglioni riscritti dal basso, investimenti in sanità e scuola pubblica, servizi sociali degni di un paese civile. Ma tranquilli: è tutto “strutturale”. Non è colpa di nessuno, è che i poveri, si sa, sono poveri perché non hanno avuto la decenza di nascere ricchi. E la cosa più triste, quella che ti toglie pure la voglia di indignarti, è che molti tra quei poveri, proprio quelli che con questa manovra raccolgono le briciole, difendono pure la “pioggia” di miliardi che cade sui ricchi, come se proteggere chi li ignora fosse una forma di patriottismo fiscale. Li vedi lì, fieri, a dire che “almeno fanno qualcosa”, mentre qualcuno gli ruba anche il portafoglio. E così, ogni anno, applaudiamo la magia: la manovra “equa” che toglie ai poveri per dare ai ricchi, l’“aiuto al ceto medio” che premia chi medio non lo è più. Non è fatalismo economico, è scelta politica. Precisa. Voluta. E noi, come sempre, restiamo lì, con la faccia da fessi che applaudono il mago mentre si controllano le tasche vuote. E in sottofondo, manco a dirlo, parte Jannacci: “Ho visto un re, sa l’ha riso... perché lui, quando piange, lo fa per finta. Ma i poveretti, loro sì che piangono davvero”. E noi, fedeli al copione, continuiamo a ridere, perché se non ridiamo, ci tocca capire.
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