L'UOMO: IDEA O PROGETTO?
Entro in questa stanza di specchi, dove la luce della scienza rimbalza contro le pareti della fede e il pavimento è fatto di domande che non hanno ancora imparato a camminare da sole. Mi auto invito a sedermi senza troppi preamboli, come se fossimo due vecchi amici che hanno già consumato metà della notte a parlare di tutto e di niente. E allora comincio a parlare piano, quasi sussurrando, perché certe cose si dicono meglio quando si teme di svegliare il mistero.
Sono convinto che l’evoluzione non sia più una teoria, ma una mappa disegnata con l’inchiostro del tempo: una carta topografica che mostra come, da un punto minuscolo, si sia dispiegata la foresta infinita delle forme viventi. Eppure, proprio nel punto d’origine, la mappa si dissolve in una macchia d’inchiostro, un alone che non è più carta né parola. È lì che si annida il mio cruccio: quella prima cellula, quel granello di possibilità che decide di non essere più soltanto un mucchio di atomi danzanti, ma di danzare per conto proprio. Di nutrirsi, di dividersi, di ricordare — in qualche modo chimico e misterioso — che è meglio esistere che non esistere.
La scienza ci conduce fino al bordo di quel granello. Ci mostra il brodo caldo, le sorgenti idrotermali che sputano minerali, le vescicole di lipidi che si chiudono come bolle di sapone. Poi si ferma. Non per pigrizia, ma per pudore. Perché oltre quel punto c’è il confine dove il misurabile smette di misurarsi e comincia a guardarsi allo specchio.
Si direbbe che fede e ragione sono due strade che salgono sullo stesso monte o che, quando le due si perdono nella nebbia, prevale il sentiero della fede. Ma io non voglio scegliere sentieri. Voglio restare nel prato, e guardare il monte. Perché forse il monte è dentro di noi, più che davanti a noi.
E se la spiegazione più semplice fosse davvero una scintilla? Non un fulmine hollywoodiano, ma un gesto discreto: come quando si accende una candela in una stanza buia senza far rumore. Un gesto che non interrompe le leggi, ma le inclina appena — quel tanto che basta perché la chimica smetta di essere solo chimica e diventi desiderio.
Perché l’evoluzione, una volta iniziata, è un’orchestra che suona da sola: miliardi di strumenti che si accordano senza direttore. Ma la prima nota — chi l’ha soffiata nel flauto?
E poi arriva l’uomo. E qui il discorso si fa più intimo, quasi imbarazzato, perché parliamo di noi. Di quel momento in cui un primate dal cranio troppo grande per il suo collo si alza in piedi e, invece di cercare bacche, guarda le stelle e si chiede perché non cadono. In quel “perché” nasce tutto: la poesia, la paura, il tempio, la bomba atomica.
Nessun altro animale fa questo. Nessun cane prega il padrone, nessun gatto costruisce cattedrali per adorare il topo che non ha preso. Noi sì. Noi vediamo il miracolo e lo chiamiamo miracolo, vediamo l’ordine e lo chiamiamo legge, vediamo la morte e la chiamiamo mistero. E in questo vedere c’è già il seme di un altro vedere: quello di chi ci ha messi qui a vedere.
È come se nel codice genetico fosse rimasta impressa una fotografia sfocata di colui che ha premuto il pulsante: non una faccia, non una firma, ma un’ombra di attenzione, il ricordo di essere stati guardati prima ancora di imparare a guardare.
Così, creazione ed evoluzione non sono due capitoli separati, ma due battute dello stesso respiro. Inspira — e nasce la possibilità della vita. Espira — e la vita impara a camminare da sola. Inspira di nuovo — e l’uomo si sveglia dentro la scimmia e comincia a sognare di essere altro.
Forse Dio non ha creato l’uomo tout court. Forse ha creato la possibilità dell’uomo, e poi ha lasciato che l’evoluzione facesse il suo mestiere di scultore paziente: togliendo, aggiungendo, limando, finché un giorno una statua si è guardata le mani e ha detto: “Queste mani possono pregare.”
Pregare non è altro che ricordare di essere stati pensati...
È il modo in cui la creatura risponde al creatore con la stessa moneta del pensiero: il cerchio che si chiude senza mai chiudersi del tutto. Perché ogni risposta genera una nuova domanda, e ogni domanda è un passo verso casa.
E così resto qui, in punta di piedi, con la mappa dell’evoluzione in una mano e la candela della fede nell’altra. Non scelgo tra le due, perché entrambe illuminano lo stesso volto — solo che una lo fa con la luce del giorno, e l’altra con la luce di una stella che forse è già morta, ma continua a mandarci il suo messaggio.
Commenti
Posta un commento