VAR A FÉR DAL PUGNAT
Lo striscione, apparso in Curva "Bulgarelli" [già "Andrea Costa"] del "Dall'Ara", non è solo un insulto in dialetto bolognese: è un grido d’amore travestito da bestemmia sportiva. Tradotto alla buona, significa "la VAR può andare a farsi una sega”, ma dietro la volgarità c’è una nostalgia autentica, feroce, per quel calcio imperfetto, discusso, umano che esisteva prima del 2016. La VAR era nata con le migliori intenzioni: eliminare gli errori arbitrali, garantire giustizia, calmare gli animi. E invece ha ottenuto l’effetto opposto. Prima della VAR, un fuorigioco di quindici centimetri era argomento da bar per settimane; oggi, tre millimetri di offside vengono confermati in quarantadue secondi e tutto finisce lì. La polemica non è stata risolta: è stata sterilizzata, e con essa è morta la parte più viva del tifo. La VAR ha tolto al tifoso il diritto di sbagliare e di arrabbiarsi. Il gol di Muntari non convalidato nel 2012 è un tatuaggio indelebile nella pelle dei milanisti, o quello di Lampard nel 2010 è una vera e propria icona pop inglese, non erano semplici errori: erano cicatrici, racconti, leggende. Ora invece ci sono solo linee bianche su uno schermo e un comunicato freddo: “Goal annullato per offside di undici centimetri”. Fine della narrazione. Anche la disputa da bar è evaporata. Non si sente più “secondo me era rigore”, ma “l’ha detto la VAR”. Conversazione chiusa, barista e cliente disarmati, silenzio dove prima c’era il rumore dell’Italia che discuteva di pallone. Il calcio era una religione laica, fatta di interpretazioni e bestemmie dialettali, e la VAR l’ha trasformato in un tribunale tecnologico. E poi c’è la sospensione dell’emozione: il gol al novantesimo non è più un orgasmo collettivo, ma un momento da vivere con cautela, in attesa del verdetto. Quaranta secondi di limbo, di paura, di disillusione. L’emozione non è più istantanea: è mediata. È come fare l’amore con un preservativo di piombo: la sensazione c’è, ma il calore si perde. Perfino l’arbitro ha perso la sua umanità. Non è più il Collina che dominava il campo con lo sguardo, ma un funzionario che esegue procedure, consulta monitor e comunica con un auricolare. Non arbitra più: applica protocolli. Il prezzo della Verità è stato altissimo. La VAR ha dato al calcio la certezza, ma il calcio non è una scienza: è un dramma, e come ogni dramma vive di ambiguità, di zone grigie, di “forse”. La Verità assoluta ha ucciso il dubbio creativo, la giustizia tecnica ha soffocato quella poetica. Non serve abolire la VAR, ma ridimensionarla. Lasciare che alcuni errori restino tali, che alcuni gol restino fantasma, che qualche rigore resti dubbio. Perché il tifoso non vuole la Verità, vuole una storia da raccontare, vuole litigare, sospettare, odiare l’arbitro e ridere di sé. Vuole, in fondo, sentirsi vivo. E se per questo serve che la VAR ogni tanto “vada a farsi una sega”, ben vengano gli striscioni in dialetto: sono l’ultimo baluardo di umanità in uno sport che sta diventando troppo perfetto per essere ancora bello.
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