BABILONIA 1750 A.C...CIRCA

Immaginate questo risveglio, aprite gli occhi, vi tirate su con una smorfia, aspettandovi la solita stanza, il telefono che lampeggia e il caffè da preparare… e invece niente. Siete nudi, impolverati, immersi in un caldo secco che non è quello del vostro termosifone rotto. Vi guardate attorno e vi ritrovate davanti mura di mattoni crudi, bassorilievi di divinità alate, un brulicare di vita antica. E in un attimo capite dove siete: Babilonia. Non il ristorante fusion, non il festival culturale, ma la Babilonia-Babilonia. Quella vera, quella degli scribi, dei re, delle ziggurat che sfidano il cielo.

A quel punto, oltre all’imbarazzo totale della nudità, arriva la domanda delle domande... come diamine dimostrare che venite dal 2025?

Potete provare con la profezia: “Domani succederà…”, ma lì gli anni sono fluidi come una timeline di internet dopo tre revisioni. Il Codice di Hammurabi è del 1750 a.C. — “circa”, “più o meno”, “diciamo che potrebbe essere”. Sbagliare di qualche decennio potrebbe trasformarvi da misteriosi viaggiatori del tempo a comici involontari, nel giro di un tramonto.

Passate allora alla tecnologia. Una radio! Idea brillante… fino a quando non realizzate che dovreste costruire i componenti, senza utensili, senza materiali, senza nemmeno un tutorial su YouTube. E ammesso di riuscire, cosa ascoltereste? I cammelli in coda sul Tigri? I demoni del deserto in modalità statico? Finireste catalogati come maghi da fiera, con uno scatolotto muto e molta tristezza.

Nemmeno la matematica vi salva. Spiegare il vostro genio a gente che usa senza fatica il sistema sessagesimale mentre voi sudate per contare fino a sessanta senza farvi prendere dal panico, vi rende più prestigiatori da taverna che scienziati.

E l’astronomia? Provate pure a parlare di buchi neri a una civiltà che, con strumenti di bambù e pazienza infinita, anticipa eclissi meglio di quanto voi riusciate a prevedere il traffico in tangenziale. Senza telescopi, grafici o prove, è solo chiacchiera di un forestiero molto convinto di sé.

E qui arriva la rivelazione, quella che fa male. Tutta la nostra conoscenza moderna, se privata del suo ecosistema tecnologico, vale quanto un manuale di informatica durante un blackout permanente. Abbiamo costruito la nostra idea di superiorità su una piramide che non regge senza la sua base invisibile: tecnici, operai, artigiani, logisti, meccanici, installatori, gente che con le mani, letteralmente, tiene in piedi il mondo. Senza di loro, anche la mente più brillante è un bambino che singhiozza davanti a un giocattolo rotto.

E qui la sociologia entra come una lama affilata. Perché nella nostra epoca iper-tecnologica, chi lavora con le mani viene spesso trattato come un livello “easy”, come se la dignità professionale si misurasse in gigahertz. Eppure, se catapultassimo nel passato un fabbro, un ceramista, un falegname… prospererebbero in cinque minuti.

Il fabbro sente il ferro, osserva il colore del metallo, e in mezza giornata insegna ai babilonesi a forgiare lame migliori.
Il tessitore guarda un telaio e, con una modifica, dimezza il lavoro.
Il ceramista regola l’aria nel forno e raggiunge temperature mai sognate.
Il carpentiere introduce un incastro nuovo e rivoluziona la costruzione di case e magazzini.
Il muratore, con la malta idraulica, diventa leggenda.

Niente teoria. Nessun TED Talk. Solo risultati immediati. E in una società antica, dove il prestigio si conquista facendo e non parlando, questo significa potere vero.

Noi? Disegniamo la tavola periodica sulla sabbia come un supplente disperato. Parliamo di elettroni come spiriti invisibili. Descriviamo gli antibiotici come creature mitologiche, che sì, esistono, ma non sappiamo replicare. E quando proviamo a spiegare i chip di silicio, realizziamo che non sapremmo neanche cavare da terra il materiale di partenza.

La verità è che siamo figli di una cultura che confonde “sapere” con “saper fare”. Ma senza infrastrutture, utensili, elettricità, reti, catene logistiche, il nostro sapere evapora come un discorso motivazionale al vento.

E noi moderni, pieni di teoria ma poveri di manualità, finiamo per assomigliare a Troisi e Benigni in Non ci resta che piangere, capaci di disegnare una televisione sulla sabbia davanti a Leonardo da Vinci, descriverne il funzionamento, mimare i programmi… ma totalmente incapaci di costruirla davvero. È la rappresentazione perfetta della nostra epoca: bravissimi a spiegare concetti complessi, a fare metafore raffinate, a illustrare il potenziale delle nostre idee, ma quando manca l’intera infrastruttura tecnologica che regge quelle idee, restiamo lì, con un rettangolo tracciato per terra e nessuno strumento per trasformarlo in realtà.

Forse la lezione più utile è proprio questa: la conoscenza teorica è fragile, la tecnologia senza contesto è inutile, ma il sapere artigianale — quello vero — è adattivo, flessibile, trasmissibile. Funziona sempre, in qualunque epoca.

E magari noi moderni, così fieri dei nostri schermi touch e delle nostre conferenze sull’infinito, dovremmo ricordarcelo più spesso. E ringraziare, ogni tanto, chi sa fare una sedia che non traballa.

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