INVASORI, INVASI E INVASATI
In Italia il dibattito sull’immigrazione è diventato una sorta di sport nazionale, si gioca tutti i giorni, senza regole, con commentatori improvvisati e con la costante sensazione che la partita sia truccata. Da una parte abbiamo la percezione pubblica, un gigantesco castello di paura costruito con titoli urlati, servizi televisivi drammatici e post indignati che piovono sui social con la regolarità della pubblicità del detersivo. Dall’altra parte c’è la realtà, quella un po’ noiosa fatta di dati che nessuno legge, grafici che non fanno audience e ricerche che, nonostante tutto, resistono eroicamente alla tentazione di diventare meme. Così succede che per molti italiani l’immigrazione sembri un’apocalisse quotidiana, mentre i numeri suggeriscono qualcosa di molto più banale, le persone straniere lavorano, producono, pagano le tasse, raccolgono pomodori sotto il sole per dodici ore e contribuiscono al PIL. Certo, niente di epico, ma tremendamente reale. Nel frattempo i social fanno il loro lavoro, prendono ogni notizia che può generare ansia e la spingono fin dentro il cervello collettivo, perché niente funziona meglio della paura per farci cliccare con entusiasmo. E così un episodio di cronaca nera diventa la prova definitiva che “siamo invasi”, una rissa in strada conferma che “non c’è più sicurezza”, e ogni volta che qualcuno pronuncia la parola “integrazione” si attiva un riflesso condizionato di sospetto, tanto per non sbagliare.
La cosa buffa — buffa in senso tragicamente comico — è che mentre la politica parla di assedi, confini e muri, lo stesso governo firma ogni anno i decreti flussi per far entrare esattamente quella manodopera straniera che ufficialmente si vorrebbe tenere fuori. Una specie di schizofrenia istituzionale. Da un lato si racconta di un Paese sotto invasione, dall’altro si spalancano le porte perché altrimenti nessuno raccoglierebbe la frutta, nessuno assisterebbe gli anziani, nessuno lavorerebbe nei settori dove gli italiani, giustamente, non si sognano più di andare. È un capolavoro di incoerenza perfettamente funzionante, si alimenta la paura per ottenere consenso e, contemporaneamente, si mantiene un esercito di lavoratori indispensabili ma abbastanza precari da non disturbare l’ordine sociale. Una duplice convenienza che fa quadrare tutto, tranne la dignità delle persone coinvolte.
E la criminalità? Ah, quella grande prateria dove pascolano liberamente cliché e semplificazioni. Ogni volta che si parla di stranieri in carcere, qualcuno grida alla conferma del “problema sicurezza”, ignorando dettagli minori come il fatto che rappresentino meno dello 0,4% della popolazione straniera residente. Ma sì, perché mai farsi rovinare un’ottima narrazione da un dato statistico? Molto meglio continuare a credere che l’origine geografica determini automaticamente il comportamento, come se la criminalità fosse inscritta nel DNA e non nelle condizioni sociali, economiche o nel più banale dei fattori: il non poter permettersi un buon avvocato.
Alla fine il quadro è chiaro, l’Italia dipende dalla presenza dei lavoratori stranieri ma continua a costruire consenso stigmatizzandoli. È una contraddizione così radicata che quasi non la vediamo più, come il traffico nelle ore di punta o il politico che promette una riforma “entro l’anno”. Eppure questa incoerenza ha un prezzo, produce precarietà, diffidenza, tensioni sociali e un dibattito pubblico che sembra vivere in un eterno stato di emergenza immaginaria. Finché non accetteremo che l’immigrazione non è un’invasione, né una catastrofe, né un virus dell’identità nazionale, ma un processo storico normale, continueremo a farci governare dalla paura invece che dalla realtà. E forse, un giorno, ci accorgeremo che il vero miracolo non è “fermare gli sbarchi”, ma smettere di credere che la complessità si possa risolvere con uno slogan.
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