LA LIVELLA


C’è un momento, nella vita di ogni italiano, in cui il concetto astratto di “sanità universale” smette di essere un articolo della Costituzione e diventa qualcosa che ti attraversa la pelle. Succede quando accompagni tua madre al pronto soccorso alle tre di notte perché ha un infarto, e scopri che la prima domanda non è “ha una carta di credito?”, ma “come si chiama, signore?”. Oppure quando tuo figlio torna a casa con un braccio rotto e un gesso perfetto, senza che tu debba scegliere tra l’affitto del mese e la sua salute. O ancora quando una mammografia gratuita ti evita di rimandare un controllo salvavita perché “quest’anno non ci sono soldi”.

Questi momenti non sono gentili concessioni dello Stato, non sono il regalo di un funzionario volenteroso, né un bonus stagionale tipo il cashback sanitario. Sono diritti. Diritti conquistati, finanziati, difesi da tre generazioni e da decenni di lotte sociali che, a ripensarci oggi, sembrano quasi fantascienza politica.

Eppure, questi diritti sono sotto attacco da parte di chi, misteriosamente, non ha mai dovuto scegliere tra un antibiotico e la spesa. Da anni ci ripetono che il Servizio Sanitario Nazionale è “insostenibile”. Che costa troppo. Che le liste d’attesa sono una catastrofe. Che dovremmo aprire le porte al privato, o far pagare ticket più alti “a chi può permetterselo”, come se la salute fosse un premio per meriti speciali, tipo la raccolta punti del supermercato.

Sono gli stessi che guardano al modello americano con una sorta di adorazione mistica un sistema in cui una famiglia media spende 13.500 dollari l’anno a testa per curarsi — tre volte e mezzo più che da noi — e dove ogni anno mezzo milione di persone finisce in bancarotta per spese mediche. Ma certo, sicuramente non avevano “lavorato abbastanza duramente”, vero? La meritocrazia a stelle e strisce è sempre pronta a spiegare ogni tragedia con un giudizio morale degno della peggior sit-com.

E mentre quel modello così “efficiente” produce un’aspettativa di vita di 79 anni e mezzo — la nostra è 83 e mezzo — noi dovremmo prendere esempio. Mentre a Detroit una donna afroamericana ha il doppio delle probabilità di morire di parto rispetto a una donna in Calabria [sì, proprio la Calabria che in TV descrivono come l’anticamera di Mad Max]. Mentre 28 milioni di americani non hanno alcuna assicurazione e altri 40 milioni ne hanno una così scarsa da essere inutile se ti ammali davvero.

Eppure c’è sempre qualcuno, anche da noi, che parla degli USA con quella luce negli occhi tipica dei profeti: “il futuro funziona”. Sì, funziona se sei abbastanza ricco da evitare il sistema pubblico e abbastanza fortunato da non ammalarti mai di qualcosa che l’assicurazione considera una “condizione preesistente”.

La verità, quella semplice che però ci ostiniamo a non vedere, è che il nostro sistema sanitario è lontano dall’essere perfetto — ha buchi grandi come finestre — ma resta uno dei più equi ed efficienti al mondo. Spendiamo poco più del 9% del PIL, meno di Francia e Germania, e otteniamo risultati che nemmeno i miliardi americani riescono a comprare. Abbiamo cancellato il terrore della malattia-rovina-finanziaria per sessanta milioni di persone. Abbiamo stabilito che un operaio di Taranto e un professore di Milano valgono allo stesso modo davanti a un trapianto di fegato. Abbiamo trasformato la salute in un bene comune, non in una merce da negoziare.

Questo è rivoluzionario. Solo che ci siamo abituati, e allora sembra burocrazia.

Sì, ci sono tempi d’attesa ridicoli per una risonanza. Sì, al Sud mancano personale e attrezzature. Sì, troppi medici scappano all’estero perché qui vengono trattati come eroi solo nei discorsi del 2 giugno. Ma questi non sono difetti del modello universale: sono le cicatrici di vent’anni di tagli — 37 miliardi, dati Gimbe — e di un Paese che ha permesso alle regioni più ricche di comprare TAC nuove mentre quelle povere chiudevano ospedali.

Non serve smantellare il pubblico per “fare spazio al privato”. Questa è la strategia classica di chi prima ti lascia senza cena e poi ti vende un panino al triplo del prezzo. Serve invece smettere di considerare la salute una voce di bilancio da cui attingere a ogni crisi. Serve pagare medici e infermieri per quello che valgono, non solo applaudirli dai balconi. Serve investire in prevenzione, invece di fingere stupore ogni volta che le terapie intensive scoppiano.

Ogni euro tolto oggi al SSN lo pagheremo domani in vite umane. Non è retorica, è matematica elementare, alla portata anche del ragioniere più disincantato.

Perché se un giorno un italiano dovrà scegliere tra curarsi e mangiare, avremo perso molto più di un pezzo di PIL. Avremo perso l’idea stessa di civiltà: quel patto non scritto secondo cui, quando qualcuno cade, il resto della comunità lo rialza.

Il Servizio Sanitario Nazionale non è un lusso: è ciò che ci permette di restare umani. È ciò che evita che la malattia diventi una condanna economica. È ciò che impedisce di trasformare la salute in un privilegio da acquistare su Facebook a colpi di raccolte fondi.

Difendiamolo. Con il voto, con la rabbia civile, con la testardaggine che ci distingue ogni volta che qualcuno prova a fregarci. Perché non esiste ricchezza più grande di una società che non abbandona nessuno nel momento del bisogno. Chi dice il contrario o non ha capito nulla, o ha così tanti zeri sul conto da non ricordare più cosa significhi avere paura.

E, alla fine, ricordiamoci una cosa che Totò aveva già capito meglio di mille economisti davanti alla malattia, davanti alla fragilità, davanti alla vita che fa il suo corso, siamo tutti uguali. Perché la salute, proprio come ‘A livella, riporta tutti allo stesso piano: ricchi e poveri, professori e muratori, governanti e governati.

Ed è proprio per questo che va difesa, perché nessuno, ma davvero nessuno, possa essere trattato come se valesse meno degli altri.

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