LITTLE BIG ITALY

L’Italia è quel Paese meraviglioso che riceve dall’UNESCO il titolo di “cucina patrimonio dell’umanità” e lo celebra aprendo l’ennesimo sushi all-you-can-eat dove il nigiri sembra un oggetto smarrito e il riso ha la consistenza di un tampone bagnato, mentre continuiamo a ripeterci che siamo i custodi della tradizione come se bastasse una bestemmia contro la panna nella carbonara per meritare una medaglia. Protestiamo indignati quando un americano mette la panna, poi però ordiniamo la carbonara “fit” con la pancetta affumicata perché “così è più leggera”, e difendiamo la sacralità della cucina italiana mangiando lasagne surgelate che definiremmo “fatte in casa” solo se considerassimo il magazzino del supermercato una casa. Nel frattempo, nelle pizzerie storiche, ci trovi Ahmed e Mohamed che stendono l’impasto con una grazia che in Campania dovrebbero esporre nei musei, mentre i pizzaioli italiani veri stanno tutti a Londra e Dubai a fare margherite che costano come una rata del mutuo.

E poi c’è l’estero, dove la cucina italiana esportata da italiani veri [non solo quelli di seconda o terza generazione, ma proprio italiani italiani] è quella di “Little Big Italy”. Pasta alla Alfredo venerata come un sacramento, carbonara con la panna versata col mestolo, pizze devastate dal ketchup e decorate con parmesan industriale. E tutto questo sotto lo sguardo commosso di qualche connazionale emigrato che sussurra “questa è la vera Italia”, mentre la vera Italia in patria ordina un poke che sembra un’autopsia di frutta tropicale e lo chiama “healthy”.

E la cosa più divertente è che siamo pure ipocriti, usciamo di casa e sette su dieci vanno a mangiare sushi, etnico, cinese, McDonald’s, poke, kebab, qualsiasi cosa tranne la famosa cucina italiana che difendiamo come se fossimo i monaci amanuensi del guanciale. E quando finalmente andiamo in pizzeria, il pizzaiolo è egiziano, e ci va benissimo, però poi guai se in Pennsylvania mettono la panna nella carbonara... lì diventiamo crociati della tradizione.

Intanto continuiamo a farci belli online con proclami sulla tradizione mentre fotografiamo uramaki Philadelphia-Nutella scrivendo “gusto contaminato”, e la nonna, che un tempo impastava i malloredus con la sacralità di un rito, adesso ordina sushi anche lei, perché costa meno della spesa e almeno non deve lavare le pentole.

La verità è che la cucina italiana è diventata un logo, un marchio, un adesivo da attaccare sulla vetrina di ristoranti che non hanno mai visto un basilico vero, mentre noi gridiamo “la cucina italiana sta morendo” continuando a infliggerle colpi quotidiani con pigrizia, incoerenza e fusion improbabili. Siamo un Paese che predica una tradizione che non pratica, che si indigna per principio e transige per convenienza, un Paese che si vanta di essere patrimonio dell’umanità mentre consuma versioni sbiadite di se stesso, in patria e all’estero, con la stessa serenità con cui la nonna, ormai arresa, usa le bacchette come se nulla fosse.

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