L'ORO DELLA PATRIA

La scena, se non fosse reale, sembrerebbe uscita da una commedia politica. Nel 2019 Giorgia Meloni infiammava le piazze come un’incarnazione patriottica di Braveheart, solo che al posto della faccia dipinta di blu brandiva il tricolore e urlava “Ridateci il nostro oro! Lo carichiamo sull’aereo e ce lo riportiamo a casa!”. Sembrava quasi di vederli, i cargo militari, pronti sulla pista con i motori accesi, in attesa del via per andare a conquistare Fort Knox come un manipolo di eroi dell’immaginario sovranista.

Poi però succede l’imponderabile: Meloni a Palazzo Chigi ci arriva davvero. Ed ecco che, davanti alla realtà, la retorica si scontra con un piccolo dettaglio chiamato “mondo vero”. Perché quando il governo si trova a mettere mano alla questione dell’oro della Banca d’Italia, la rivoluzione promessa diventa un elegante, calibratissimo emendamento Malan. Un testo che, più che cambiare le cose, sembra scritto per non far arrabbiare nessuno. Sì, l’oro è del popolo italiano – grazie, lo sapevamo – ma togliamo dal testo la parola “rimpatrio”, non sia mai che si dia l’idea che vogliamo davvero prenderci quei lingotti.

Il risultato? Tutto resta esattamente com’era. Bankitalia continua a gestirli, i soci privati continuano a incassare, e i lingotti rimangono sparpagliati in giro per il mondo come studenti Erasmus un po’ disorganizzati. A noi resta una riga su un documento, una specie di certificato simbolico, un po’ come dire che la Gioconda è italiana… sì, certo, ma sta al Louvre e noi la vediamo solo quando andiamo a Parigi.

Il punto, però, è strutturale, rimpatriare l’oro sarebbe stato un suicidio economico. L’Europa avrebbe reagito come un professore severissimo a cui uno studente annuncia che vuole correggere da solo il compito. La BCE, probabilmente, avrebbe riso in tedesco, i mercati si sarebbero messi a ballare il twist, Draghi avrebbe spedito una letterina con scritto “State scherzando, vero?”. Così, la maggioranza ha scelto la soluzione più praticabile...non cambiare niente e trasformare la politica estera e monetaria in un gioco di prestigio linguistico.

In Commissione Bilancio, poi, si sono accorti che mancava tutto la copertura, il parere della BCE, qualsiasi sostanza. Rimaneva giusto la voglia di sventolare una bandierina da consegnare alla tifoseria. E così è nata la sovranità lessicale, cambiare le parole per non cambiare la realtà. È la politica di chi si compra la maglietta della Ferrari ma continua a girare con la Panda… con la differenza che, in questo caso, la Panda non ce l’abbiamo nemmeno, perché l’oro è ancora là dov’era.

E così eccoci nel sovranismo 2.0, quello che grida forte, promette rivoluzioni, e poi, quando finalmente ha il potere, firma un emendamento di tre righe che certifica il nulla. Eppure, con quello si brinda lo stesso. Si brilla nelle conferenze stampa. Si parla di vittorie epocali. E intanto continuiamo a vivere nell’Europa reale, a pagare il mutuo in euro – quella moneta che dovevamo cacciare a pedate – e a custodire la nostra sovranità dove non dà fastidio, sulla carta, l’unico luogo dove il governo può permettersi di ristabilirla senza che nessuno protesti davvero.

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