NOT IN MY BACKYARD
In Europa continuiamo a celebrare con entusiasmo il grande spettacolo del dialogo interreligioso, soprattutto quando si svolge a debita distanza. Il Papa che visita il Cairo, stringe mani ad Abu Dhabi, parla di fraternità a Baghdad e viene accolto come un profeta della pace. Una coreografia impeccabile, quasi terapeutica, che ci permette di sentirci aperti, tolleranti, maturi. Poi però torniamo a casa e scopriamo che basta il progetto di una moschea in una periferia qualsiasi perché la pacificazione tra religioni si trasformi all’improvviso in un assedio culturale, e i paladini della “civiltà cristiana” – spesso più avvezzi ai talk show che ai Vangeli – si mobilitino come se stessero difendendo le mura di Vienna. Lo stesso continente che si commuove davanti ai viaggi apostolici non ha nessun problema a chiamare “invasione” quattro imam e una cupola color sabbia, e si ingegna con creatività degna di miglior causa per inventare riti di respingimento degni di un film di serie B, come cospargere terreni con sangue di maiale nella convinzione, tanto pittoresca quanto errata, che ciò renda magicamente impossibile la costruzione di una moschea. È la versione europea del “non nel mio giardino”, solo più primitiva e con maggiore fantasia simbolica. La contraddizione è così evidente da risultare quasi imbarazzante, da un lato l’istituzione religiosa che dialoga da una posizione di forza storica, solida e rassicurante, dall’altro cittadini che percepiscono l’Islam come una sorta di minaccia esistenziale, un solvente demografico che scioglierebbe ciò che resta delle loro identità, spesso tenute insieme con lo sputo e la nostalgia. E a questo punto entra in scena il grande totem della reciprocità “Perché dovremmo costruire moschee se in Arabia Saudita non costruiscono chiese?” domanda ricorrente che viene ripetuta con l’orgoglio di chi crede di aver scoperto il principio primo della filosofia politica, senza rendersi conto che i diritti non funzionano come il baratto delle figurine. Che poi, l'Arabia saudita è il Vaticano dell'Islam, e nemmeno in Vaticano si possono costruire moschee o altri templi religiosi. A complicare il quadro c’è la politica, sempre pronta a trasformare la paura in carburante elettorale: difendere la “cultura giudeo-cristiana” diventa improvvisamente un impegno fervente anche per chi passa il Natale alle Maldive e considera il cristianesimo un buon pretesto per fare opposizione all’Islam senza passare per xenofobo. Nel frattempo la Chiesa predica accoglienza, fraternità, dialogo, e poi scopre che molti dei suoi fedeli votano entusiasti per partiti che fanno dell’avversione all’Islam un mestiere. È come se il messaggio evangelico si fermasse all’ingresso del seggio, sostituito da un prontuario identitario molto più comodo e soprattutto molto più redditizio. Lo Stato, dal canto suo, gioca un ruolo altrettanto ambiguo: una laicità inflessibile quando c’è da frenare l’Islam, una laicità distratta quando si tratta di mettere in discussione i privilegi cristiani ormai sedimentati nel paesaggio istituzionale europeo. Alla fine tutto si riduce a un paradosso che non vogliamo guardare in faccia: l’Europa è bravissima a predicare tolleranza quando si tratta di volare a migliaia di chilometri, dove il dialogo è elegante, cerimonioso, privo di conseguenze concrete. Ma quando il dialogo avviene nel quartiere sotto casa, quando la diversità entra davvero nel panorama quotidiano, allora improvvisamente la tolleranza sembra un lusso che non possiamo permetterci. Il risultato è che a forza di essere aperti altrove e chiusi qui, finiamo per non essere credibili da nessuna parte. Il dialogo interreligioso resta così un esercizio estetico, un’abitudine di buona educazione diplomatica, mentre sul terreno reale crescono diffidenza, rancore e quella fantasia tribale che trasforma il sangue di maiale in un ridicolo strumento di autodifesa culturale. Forse è questo il punto, il problema non è l’Islam, né le moschee, né i minareti. Il problema è che noi europei siamo ancora incapaci di decidere se vogliamo davvero essere quello che diciamo di essere. E a giudicare dallo spettacolo quotidiano, la risposta è molto meno edificante dei nostri discorsi solenni.
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