NUCLEARE ALL'ITALIANA


L’Italia e il nucleare sono una di quelle storie d’amore impossibili che ogni tanto ritornano, come l’ex che ti ha già deluso tre volte ma che giura di essere cambiato. L’unica differenza è che qui l’ex costa ottanta miliardi di euro e ha bisogno di quindici anni solo per arrivare al primo appuntamento. Il nuovo via libera parlamentare al nucleare è dunque l’ennesimo capitolo di una saga nazionale in cui si evocano visioni epiche senza neppure controllare se abbiamo ancora gli occhiali per vederle.

Il Paese, dopo trentacinque anni di oblio atomico, si risveglia una mattina e decide che sì, ora si fa sul serio con gli SMR, quei piccoli reattori modulari che nel marketing energetico sono il futuro scintillante. Peccato che nel frattempo abbia smantellato competenze, università, organi di controllo, filiere industriali e perfino la memoria collettiva del “come si costruisce una centrale”. È come iscriversi alle Olimpiadi dopo trent’anni di divano, convinti di vincere solo perché un tempo correvamo.

Il vero problema non è tecnico. È sociologico, l’Italia coltiva con cura un talento speciale per l’annuncite acuta, seguita da paralisi operativa. Il Ponte sullo Stretto è la cartolina perfetta: dopo settant’anni di promesse e ripromesse, ogni volta che si arriva al dunque salta fuori che non si sa dove metterlo, come farlo stare in piedi, né chi pagherà quando i costi esploderanno come sempre.

Il nucleare rischia di seguire lo stesso percorso gloriosamente inconcludente. Le opposizioni non sono capricci di ambientalisti estremisti: sono paure sedimentate nel DNA collettivo dalla triade Chernobyl–Fukushima–referendum, che ha prodotto un immaginario nazionale in cui l’atomo è sinonimo di catastrofe, non di innovazione.

La tecnologia può anche essere più sicura, e puoi raccontare quanto vuoi che francesi, americani e coreani ci convivono da mezzo secolo senza stermini di massa. Ma se non si costruisce un dialogo partecipativo serio – non le solite liturgie in cui il territorio viene informato a decisione già presa – la reazione sarà sempre la stessa: opposizioni, ricorsi, cantieri bloccati, guerre di trincea amministrative. Il Vietnam burocratico è una specialità domestica, nessuno ne esce vivo.

Poi c’è il capitolo delle scorie, che è un po’ come il nostro album delle figurine incompiuto. Da quarant’anni ci spostiamo i rifiuti radioattivi da un deposito temporaneo all’altro, mentre il deposito nazionale rimane un miraggio che svanisce ogni volta che un sito viene proposto. Ogni sindaco interessato reagisce con barricate degne della Comune di Parigi. Ma tranquilli: per le nuove scorie, giurano, saremo efficienti come la Germania. Certo. Intanto non riusciamo a gestire quelle vecchie.

Dicono, i primi SMR nel 2035. Forse 2038, se siamo ottimisti. Ma nel Paese in cui per una rotonda servono cinque anni tra appalti, ricorsi, anti-ricorsi, varianti e inaugurazioni provvisorie, immaginare reattori funzionanti entro quindici anni è atto di fede mistico, roba da santuario.

Nel frattempo, la crisi climatica continua senza consultare il nostro calendario burocratico. Le rinnovabili costano cinque volte meno, si installano in due anni e non generano eredità radioattive per diecimila generazioni. Ma no, quelle sono cose da ambientalisti radical chic. Meglio il nucleare, che dà un’immagine virile, tecnologica, da potenza industriale. Peccato che la tecnologia dovremo importarla perché noi la filiera l’abbiamo persa tra gli anni Ottanta e l’ultimo film di Bud Spencer.

Il dibattito resta incastrato tra nuclearisti convinti che l’atomo sia la panacea e ambientalisti che vedono Chernobyl in ogni valvola. In realtà servirebbe un mix intelligente, ma per farlo servirebbe una classe dirigente intelligente. Qui casca l’asino. Continuiamo a vivere di slogan, emergenze e annunci, evitando accuratamente la pianificazione, perché quella costa fatica e consenso.

Mettiamo che, per miracolo, tutto parta entro due anni e fili liscio. Primo reattore nel 2038, recupero dei costi nel 2045, contributo significativo al mix dopo il 2050. Chi investe ora vede ritorni tra 25 anni. Le rinnovabili, invece, vanno a utile in 7-10 anni. Ma noi preferiamo la gratificazione differita, forse per tradizione culturale.

Il pericolo concreto è che il nucleare diventi il nuovo Ponte sullo Stretto, un sogno costoso che tiene tutti occupati mentre la realtà prosegue identica a prima. Continueremo a importare gas, a pagare bollette alte, a mantenere emissioni elevate, e il Sud rimarrà spettatore mentre i reattori verranno collocati al Nord.

Per evitare l’ennesima opera incompiuta servirebbero
un piano decennale vero con milestone misurabili, riforme strutturali su autorizzazioni, controlli e appalti, formazione accelerata di tecnici e ingegneri, dialogo autentico con i territori, una gestione seria e definitiva delle scorie.

Senza questo, tra dieci anni ripeteremo la stessa discussione: soldi finiti, tempi raddoppiati, opposizioni cresciute e motivazioni evaporate. E il governo di turno rilancerà con un nuovo annuncio ancora più ambizioso, perché in Italia i sogni non muoiono mai, semplicemente si accumulano, come le opere incompiute, sospesi tra il desiderio di modernità e la nostra cronica difficoltà a realizzarla davvero.

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