POPPER O POPPER?


La domanda se si debba o meno permettere a chi esprime pensiero fascista di parlare in un ateneo è una di quelle questioni che hanno il raro potere di far sentire chiunque terribilmente intelligente e moralmente immacolato. È un po’ come un quiz etico in cui qualunque risposta tu dia ti sembra di aver appena vinto il Nobel per la Democrazia. Da un lato si piazzano i paladini della libertà d’espressione, pronti a evocare Voltaire — che, pover’uomo, probabilmente non ha mai detto quella famosa frase sul difendere a morte l’opinione altrui — come se fosse la password magica che sblocca qualsiasi dibattito. Dall’altro lato troviamo i custodi del Bene con la B maiuscola, convinti che il modo migliore per sconfiggere un’idea tossica sia comportarsi come un bambino che chiude gli occhi sperando che il mostro nell’armadio sparisca. Entrambe le posizioni hanno un vantaggio irresistibile, sono semplicissime da difendere finché nessuno chiede di complicarle con la realtà.

Partiamo dai difensori della libertà assoluta, quei romantici che immaginano l’università come una specie di Hyde Park 2.0, dove chiunque può salire su una cassetta di frutta — pardon, una cattedra — e declamare qualsiasi cosa. Secondo loro, negare un palco accademico al fascista di turno equivarrebbe a tradire i fondamenti stessi del libero pensiero. E poi, dicono, come potremmo mai confutare il fascismo se non lo lasciamo parlare? Una domanda toccante, soprattutto considerando che il fascismo è stato già confutato dalla storia con una quantità industriale di prove, documenti, fotografie e qualche milione di morti come appendice. Ma forse non è ancora abbastanza, magari a qualcuno serve davvero un seminario in aula magna per capire che Auschwitz non è stata una soluzione urbanistica particolarmente riuscita.

L’argomento preferito di questo fronte è la famigerata china scivolosa. Oggi vieti il fascista, domani chiudi il microfono a chi non condivide la tua impostazione economica, e dopodomani censuri chi osa preferire il tè al caffè. È una visione affascinante del declino democratico, quasi poetica, come se la società intera fosse un bambino incapace di distinguere tra “opinioni su come finanziare la sanità” e “persone che non dovrebbero avere diritti fondamentali”.

Dall’altro lato, però, il fronte del divieto non si comporta in modo meno tragicomico. L’idea che non far parlare un fascista lo renda automaticamente innocuo presuppone che le ideologie siano come vampiri, possono entrare solo se le invitati. Nella realtà, ovviamente, accade esattamente il contrario. Vietare qualcuno in un’università lo trasforma immediatamente in un martire della libertà negata, regalandogli una visibilità che non avrebbe mai ottenuto parlando di fronte a venti studenti distratti che controllano il telefono. È la strategia perfetta se l’obiettivo è rafforzare ciò che si dice di voler combattere.

E poi c’è questa tenera convinzione che gli studenti universitari siano menti delicatissime, pronte a cedere alla prima retorica stonata. Viene quasi da chiedersi se bastasse un’ora di conferenza per convertire un ventenne al fascismo. Forse il problema non è l’evento ma l’intero sistema educativo che l’ha preceduto. Trattare gli studenti come spugne passive non è solo paternalistico, è sociologicamente impreciso e democraticamente pericoloso.

Ma la verità, quella davvero scomoda, è che entrambe le posizioni partono da presupposti storti. I difensori della libertà assoluta fingono che dare una piattaforma accademica sia un atto neutrale, quando invece un invito universitario è già di per sé un’investitura simbolica. Un ateneo non è un marciapiede pubblico, fa continuamente scelte su chi considerare degno di contribuire al discorso accademico. Dire di no a qualcuno non è censura, così come non assumere un candidato non è violazione dei suoi diritti civili.

I proibizionisti, d’altra parte, si ostinano a credere che vietare basti a neutralizzare il problema, quando nella pratica si limita a spostarlo altrove — spesso amplificandolo. Il fascista escluso dalla sala conferenze migrerà online, monetizzerà il ruolo di vittima del “sistema”, raccoglierà follower che non avrebbe mai intercettato nell’ambiente universitario, e alla fine il risultato sarà esattamente opposto all’intento iniziale.

E poi c’è l’elefante nella stanza... chi decide cosa sia “pensiero fascista”? Finché parliamo di qualcuno con una svastica tatuata in fronte il compito sembra facile, ma la realtà politica contemporanea è fatta di sfumature, ambiguità, derive semantiche e definizioni elastiche. Esagerare o minimizzare è fin troppo facile, e l’accademia ha una lunga tradizione nel modellare i concetti secondo le necessità del momento.

Forse — e so che è una proposta radicale quanto chiedere a tutti di respirare — la soluzione richiede pensiero critico vero. Forse bisogna smettere di cercare regole universali e iniziare a valutare caso per caso: chi è il relatore, qual è il contesto, quali sono i rischi concreti, quale il pubblico, quale lo scopo dell’evento. Non un principio astratto da scolpire nella pietra, ma una responsabilità situata, complessa, scomoda. Meno eroico, certo, e molto meno gratificante del proclamarsi difensori della libertà o custodi della democrazia. Ma probabilmente più efficace.

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