TERSITE, CHI ERA COSTUI??

Tersite è un personaggio dell’Iliade, introdotto da Omero nel II canto, descritto dal poeta come brutto, deforme, repellente: “parlator petulante”, “di scurrili indigeste dicerie pieno il cerebro” [canto II, vv. 274-278].

Tersite [il cui nome significa letteralmente “lo sfrontato”] si rende colpevole di lesa maestà, perché ha offeso Agamennone nel bel mezzo di un discorso che il re greco stava tenendo per saggiare il morale delle sue truppe durante la guerra di Troia. L’orrido gobbo Tersite accusa pubblicamente Agamennone di essere avido, corrotto, egoista; di aver trascinato un popolo in guerra solo per assecondare il suo desiderio di ricchezza e la sua lussuria: “d’auro hai fame” [c. II, v. 298], “cerchi schiava giovinetta a cui mescolarti” [c. II, vv. 302-303] urla Tersite in faccia al re, davanti a tutti i soldati stupefatti. Addirittura incita questi a ribellarsi al re, a levar le tende e a far vela verso casa; li provoca chiamandoli “donnette” [“Achive, non Achei!”], li spinge a disertare, a non seguire Agamennone nella sua guerra egoistica: “Oh vili, oh infami, oh Achive, non Achei! Facciamo vela una volta; e qui costui si lasci, qui lui solo a smaltir la sua ricchezza…” [c. II, vv. 305-308]. Finché non arriva Ulisse che lo percuote “sulle terga […] e le spalle” [c. II, vv. 343-344], facendogli “la schiena rubiconda” [c. II, v. 347], e lo costringe al silenzio, in mezzo all’ilarità della truppa.

Eppure Tersite ha detto di Agamennone ciò che nel canto precedente anche Achille aveva sostenuto. Quando Agamennone pretese per sé Briseide, la prigioniera che era stata assegnata ad Achille, questi inveì contro il re, lo chiamò “anima invereconda, anima avara” [canto I, v. 199]; e più avanti: “svergognato”, “brutal ceffo” [c. I, vv. 210 e 212]. Se non fosse intervenuta Atena a fermargli la mano, il Pelìde avrebbe tratto la spada e l’avrebbe immersa nel seno dell’Atride [c. I, vv. 251-264]. Convinto dalla dea a non “trar brando” e a “contendere” con il re solo parole, Achille aveva ripreso la sua furiosa arringa e assalito ancora Agamennone con queste frasi: “tu non osi giammai nelle battaglie dar dentro colla turba; o negli agguati perigliarti co’ primi infra gli Achei, ché ogni rischio t’è morte” [c. I, vv. 300-303]. Insomma, gli aveva dato pure del vigliacco [“cane agli sguardi e cervo al core”: coraggioso in apparenza, codardo in fondo al cuore]. Parole, queste di Achille, assai più dure di quelle usate da Tersite. Ma Achille viene ascoltato e le sue giuste ire lasciano il segno, perché egli è un eroe, è bello e buono, secondo l’ideale greco della kalokagathìa [espressione che indica nella cultura greca del V secolo a.c. l’ideale di perfezione fisica e morale dell’uomo]; mentre Tersite, volgare, brutto e deforme, pur dicendo le stesse cose viene percosso e ridicolizzato.

Come scrisse anni fa Ferdinando Adornato sulla rivista Liberal [marzo 1996] “la verità di Achille è nella storia, quella di Tersite nella strada. Achille è capo. Tersite è popolo. Onore al primo, disprezzo al secondo.” Adornato concludeva così: “Può la cultura democratica far propria questa mitologia?”. Senza pretendere di ricavare dalla figura di Tersite un monito in difesa della democrazia, mi limito a vedere in questo personaggio l’antieroe che osserva le “cose del mondo” da una prospettiva insolita: quella di chi non frequenta i salotti buoni del potere e dell’intellighenzia alla moda.

Dalla strada della periferia le cose del mondo appaiono diverse: diverse rispetto a come sembrano a chi le guarda dal centro del mondo, laddove vengono prodotti i significati ufficiali che dovrebbero dare un senso a quelle cose. Dalla periferia, dal mondo opaco della provincia ciò che viene creato e diffuso dal centro appare meno luccicante e più sbiadito.


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