CECI N'EST PAS UNE PIPE
La strategia di riduzione del danno rappresenta uno dei dibattiti più complessi e sfaccettati della politica sanitaria contemporanea, un terreno dove si intrecciano considerazioni mediche, etiche, sociali e politiche in un groviglio spesso difficile da dipanare. Quando l'assessora Matilde Madrid parla della sperimentazione sul crack e della sua estensione, tocca il cuore di una questione che va ben oltre la semplice gestione di un problema di salute pubblica, perché ci costringe a riflettere su cosa significhi davvero prendersi cura delle persone più vulnerabili della nostra società. Il fatto che il 55% degli utilizzatori siano italiani dovrebbe farci riflettere su quanto questo fenomeno sia radicato nel tessuto sociale del paese, non confinato ai margini o a categorie facilmente identificabili e stigmatizzabili, ma diffuso trasversalmente in una società che forse non vogliamo guardare fino in fondo. La riduzione del danno, in fondo, è una filosofia profondamente umana che riconosce la complessità dell'esperienza umana e l'impossibilità di risolvere certi problemi con soluzioni semplicistiche o moralistiche. Quando si forniscono strumenti adeguati per il consumo o kit per l'analisi delle sostanze, non si sta incoraggiando l'uso di droghe, come spesso si sente dire nei dibattiti pubblici più accesi, ma si sta semplicemente riconoscendo una realtà: le persone continueranno a usare queste sostanze indipendentemente dalla nostra approvazione o disapprovazione, e quindi la scelta etica fondamentale diventa se vogliamo che lo facciano nel modo più sicuro possibile o se preferiamo voltare la testa dall'altra parte lasciando che affrontino da sole le conseguenze più devastanti. L'evidenza scientifica internazionale, del resto, è abbastanza chiara nell'indicare che questi approcci funzionano nel ridurre mortalità, infezioni e altre complicazioni gravi, ma c'è qualcosa di più profondo in gioco qui, qualcosa che riguarda il tipo di società che vogliamo essere e il modo in cui concepiamo la cura e la responsabilità collettiva. Quando Madrid parla di intercettare le persone, usa un termine che potrebbe sembrare tecnico ma che nasconde una dimensione profondamente umana: si tratta di raggiungere persone che spesso sono invisibili ai servizi tradizionali, che vivono ai margini non per scelta ma per una serie di circostanze complesse che includono dipendenze, problemi di salute mentale, povertà, esclusione sociale. La riduzione del danno è anche un atto di resistenza contro la tendenza a giudicare prima di comprendere, contro l'impulso moralizzatore che vede nella sofferenza una sorta di giustizia cosmica piuttosto che un problema da affrontare con competenza e compassione. Il drug checking, in particolare, rappresenta un cambio di paradigma rivoluzionario: invece di criminalizzare o stigmatizzare, si offre informazione e si riconosce alle persone la capacità di prendere decisioni più consapevoli riguardo alla propria vita, anche quando quelle decisioni non sono quelle che noi vorremmo che prendessero. Questo non significa rinunciare all'obiettivo di aiutare le persone a superare le dipendenze, ma riconoscere che il percorso verso quel traguardo può essere lungo e tortuoso, e che nel frattempo è nostro dovere fare tutto il possibile per mantenere quelle persone vive e il più possibile in salute. C'è una dimensione pragmatica in tutto questo che forse disturba chi preferisce soluzioni più nette e definitive, ma la realtà dell'uso di sostanze è intrinsecamente complessa e richiede risposte altrettanto articolate. La strategia descritta dall'assessora non è solo una questione tecnica di sanità pubblica, ma il riflesso di una visione del mondo che riconosce la dignità di ogni persona indipendentemente dalle sue scelte o dalle sue condizioni, una visione che sa distinguere tra l'ideale di una società senza droghe e la realtà di una società in cui le droghe esistono e continueranno a esistere, e in cui quindi la vera questione diventa come minimizzare il danno che possono causare. Forse la cosa più interessante di questo approccio è che non pretende di avere tutte le risposte, ma si basa sull'osservazione attenta di cosa funziona davvero nel mondo reale, sull'ascolto delle persone direttamente coinvolte, sull'adattamento continuo delle strategie in base ai risultati ottenuti. È un approccio umile, in un certo senso, che riconosce i propri limiti ma non per questo rinuncia a tentare di fare la differenza, giorno dopo giorno, una persona alla volta, un kit di analisi alla volta, una infezione evitata alla volta. E forse è proprio questa umiltà, questa capacità di stare nella complessità senza pretendere di risolverla completamente, che rende la riduzione del danno non solo una strategia sanitaria efficace, ma anche un modello di come una società matura può affrontare i suoi problemi più difficili e persistenti.
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