DOTI, DOGMI, DIVIETI
Altro che sacramento indissolubile fondato sull’amore: al tempo di Gesù il matrimonio in Giudea era una faccenda di contratti tra famiglie, con due tappe burocratiche ben scandite — prima l’Erusin, una promessa solenne che impegnava i clan, poi il Nissuin, la convivenza e la festa — roba da notai e parenti, non da Cupido. L’amore romantico, quello che oggi la Chiesa ci vende come fondamento evangelico del vincolo, non c’entrava quasi nulla: contavano alleanze, prestigio sociale, sicurezza economica, e le donne, pur presenti e attive, spesso finivano più pedine che regine, usate per consolidare i giochi familiari.
Il sacramento? Invenzione medievale, consacrato solo dal Concilio di Verona nel 1184: Gesù e i suoi contemporanei non sapevano neanche cosa fosse un sacramento matrimoniale, perché per loro il matrimonio era una faccenda sociale, non una vocazione mistico-spirituale da conferire con formula magica. Eppure oggi la Chiesa continua a raccontarci che Cristo avrebbe inaugurato una sorta di versione originaria del matrimonio cattolico, quando in realtà alle nozze di Cana Gesù si limita a partecipare, trasformare un po’ d’acqua in vino — e non per benedire il vincolo eterno tra marito e moglie, ma per dare un segno simbolico di trasformazione e gioia messianica. Insomma, più che un’anticipazione del catechismo, fu un brindisi riuscito.
Ma siccome alla Chiesa medievale serviva trasformare una convenzione sociale in strumento di controllo morale e politico, ecco che si prende il matrimonio biblico, lo si filtra con le categorie teologiche del XII secolo, e lo si rispedisce indietro di mille anni come se fosse sempre stato così. Peccato che i dati storici dicano altro: il divorzio, oggi negato con anatemi e scomuniche, allora era perfettamente legittimo, regolamentato dalla Halakha, con tanto di dibattiti tra scuole rabbiniche su cosa fosse motivo sufficiente per ripudiare la moglie. E le parole di Gesù sul divorzio, tanto usate dalla Chiesa come bandiera dell’indissolubilità, erano semplicemente un intervento dentro quel dibattito, non un atto notarile di fondazione sacramentale.
Poi certo, nei secoli la teologia ha costruito il matrimonio come unione unitiva e procreativa, roba anche sensata come sviluppo dottrinale, ma diventa surreale quando si pretende che fosse già lì, bello e pronto, nell’epoca di Gesù. La verità è che il matrimonio nel Mediterraneo antico era un patchwork di tradizioni: ebraiche, greche, romane, ciascuna con regole e flessibilità proprie, altro che modello uniforme. Persino Paolo, che di matrimonio parla, lo fa in tono schizofrenico: da un lato lo accetta come dato sociale, dall’altro lo ridimensiona perché il Regno di Dio è alle porte, quindi tanto vale non affezionarsi troppo. Difficile immaginare che avesse in mente l’indissolubilità matrimoniale codificata da Trento.
Ed è qui che il paradosso diventa irresistibile: la Chiesa proclama che il matrimonio è la via regale della vita cristiana, il sacramento fondamentale, la cellula della società, ma poi guarda i suoi modelli di riferimento — Dio e Gesù — e scopre che non si sono mai sposati. La Trinità è un club di scapoli eterni che dettano le regole della vita coniugale senza aver mai conosciuto l’ebrezza di una suocera, di un mutuo o di una lite sul colore delle tende. È come se un vegano scrivesse il manuale del barbecue: grande entusiasmo teorico, zero pratica.
E il dettaglio non è marginale: Gesù, immerso in una cultura dove il matrimonio era la norma, non solo non si sposa, ma relativizza i legami familiari, sostituendo la comunità di fede alla parentela di sangue. Eppure, nei secoli, proprio quella Chiesa nata da un Messia celibe e da apostoli senza ruolo coniugale rilevante ha finito per innalzare il matrimonio a sacramento imprescindibile, arrivando perfino a definirlo “immagine della Trinità”. Ma se la Trinità è un consesso di eterni single, non viene forse il sospetto che l’analogia sia forzata, più teologica che evangelica? Per giunta, mentre ai fedeli si chiede di vivere la vita cristiana soprattutto dentro il vincolo coniugale, i chierici che amministrano il sacramento vivono essi stessi nel celibato obbligatorio. In pratica, chi non si sposa detta legge a chi si sposa.
E allora la discrepanza salta agli occhi: la Chiesa di oggi legge i Vangeli con l’occhiale deformato del Medioevo, spaccia per originaria una teologia nata secoli dopo e dimentica che per gli uomini e le donne dell’epoca di Gesù il matrimonio era soprattutto un affare sociale ed economico. Il risultato? Un anacronismo catechistico che non solo non regge storicamente, ma svuota la ricchezza e la complessità di quel mondo antico. Ma a furia di canonizzare tradizioni successive come se fossero sempre state rivelazione, si rischia di trasformare il Vangelo in una favola ideologica, più utile al potere che alla verità.
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