LA PACE DEI VINTI


Continuano le proteste.

Nelle piazze, nelle scuole, nelle università, nei teatri e perfino nei luoghi di culto. La società civile non tace: chiede giustizia, chiede memoria, chiede che il massacro del popolo palestinese non venga inghiottito nel buio dell’indifferenza.
E mentre il mondo discute di “cessate il fuoco” e “trattati di pace”, le voci dei manifestanti non si spengono.
Perché?
Perché non è la pace dei potenti quella che cercano, ma la pace dei vivi e dei morti.

Eppure, da destra, si levano le solite domande intrise d’ironia e sufficienza: “Ma perché protestate ancora, se ormai la pace è fatta?”
Una pace fatta da chi, e a vantaggio di chi? Una pace firmata sulle macerie, con le mani ancora sporche di sangue? Una pace che somiglia più a una resa, o peggio, a un oblio?

Come si fa pace — io che la pace non l’ho mai vista?
Come si costruisce qualcosa che non si è mai conosciuto, che è rimasto sempre promessa, miraggio, parola vuota sulle labbra di chi non ha mai vissuto la guerra, ma solo la sua retorica?
E come si può parlare di rispetto quando chi ha colpito pretende, sin dal giorno dopo, di essere di nuovo trattato come se nulla fosse stato?
Israele, dopo mesi di bombardamenti, chiede di essere riconosciuto, salutato, legittimato. Come se il sangue potesse asciugarsi in fretta, come se la memoria collettiva dovesse rimuovere d’un colpo ciò che è accaduto. Ma il rispetto non si impone, si riconquista. E la fiducia non torna per decreto.

Come se bastasse un documento diplomatico per cancellare decenni di occupazione, di ingiustizie, di vite spezzate. Come se la sofferenza avesse una data di scadenza. Come se la memoria potesse essere archiviata come un vecchio fascicolo di Stato.
È l’eterno mantra di chi preferisce non guardare: “chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato... scurdammoce ’o passato.”
Ma il passato non si lascia dimenticare, soprattutto quando è ancora vivo, quando continua a bruciare nel presente.

Davvero si può chiedere a un popolo di dimenticare i figli sepolti sotto le macerie, le case ridotte in polvere, i sogni distrutti prima ancora di nascere? Davvero si può domandare a chi è sopravvissuto di accettare in silenzio la versione ufficiale dei vincitori?
Saremmo stati capaci di perdonare il nazismo, il fascismo, Hitler o Mussolini solo perché si fossero seduti un giorno a un “tavolo della pace”? Avremmo stretto loro la mano in nome della riconciliazione, cancellando i campi di sterminio, le leggi razziali, le guerre e le deportazioni?

La pace non è un atto notarile, non è un contratto tra governi. È un processo di verità e di giustizia.
E senza giustizia, ogni pace è solo una tregua armata.
Chi oggi chiede silenzio, in nome della “stabilità”, non difende la pace, ma l’oblio.
E l’oblio è il terreno più fertile per il ritorno dell’orrore.

Le proteste non sono capriccio né ideologia: sono il respiro di chi non accetta che il dolore venga normalizzato, che le immagini dei bombardamenti diventino parte dello sfondo quotidiano, come un rumore lontano che si impara a ignorare.
Protestare significa ricordare.
E ricordare significa rifiutare la complicità dell’indifferenza.

La pace — quella vera — nasce solo quando si guarda in faccia la verità, quando si riconoscono le vittime, quando chi ha distrutto si assume la responsabilità di ciò che ha fatto.
Finché questo non accade, le piazze continueranno a riempirsi, le voci a gridare, i giovani a sventolare bandiere e cartelli.
Non per nostalgia, non per odio, ma per dignità.
Perché la pace, se non è giusta, è solo una pausa tra due violenze.

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