NOI, PER SEMPRE
Dietro il grande amore che univa le due sorelle, così celebrate e così gemelle da sembrare un refuso della natura, c’era una solitudine ostinata, tenace, che nessun palcoscenico, nessuna paillettes e nessun applauso avrebbe mai potuto mascherare davvero. Una solitudine quasi scomoda, la classica presenza che tutti fingono di non notare mentre applaudono il numero di punta. Perché, diciamolo, la loro vita perfettamente simmetrica era anche una gabbia dorata. Essere identiche era il loro talento, ma anche la loro condanna. Il pubblico le adorava proprio perché erano inseparabili, e forse perfino loro, a forza di recitare la parte delle sorelle indissolubili, hanno finito per crederci fino in fondo, come quegli attori che non sanno più uscire dal personaggio neppure a sipario chiuso. Il loro vero terrore non era l’invecchiamento – quello, al limite, lo si trucca – ma l’idea spaventosa di trovarsi a esistere come individui, di essere costrette a pronunciare un “io” senza automaticamente includere un “noi”. Hanno vissuto così, in due per necessità più che per virtù, aggrappate l’una all’altra come se il mondo fosse troppo vasto, troppo rumoroso, troppo rischioso per affrontarlo da sole. E alla fine, quando il tempo ha iniziato a presentare il conto, hanno scelto la via più coerente con la loro biografia, uscire di scena insieme, con la puntualità di un ultimo sipario che cala alla perfezione, senza sbavature. Insieme per tutta la vita, certo, ma soprattutto insieme per non affrontare il fastidio dell’assenza, il peso dell’identità individuale, il fantasma della solitudine. E insieme nella morte, non come gesto eroico, ma come atto finale di quella coreografia esistenziale che le aveva rese celebri. Due figure specchiate che non potevano immaginarsi separate neanche per un istante, neanche alla fine, forse soprattutto alla fine.
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