IMAM LAICI
Il caso dell’imam Shahin è uno di quei piccoli scandali italiani che raccontano molto più di quanto sembri. Non tanto per ciò che è stato detto, quanto per come lo Stato ha reagito. E per il doppio standard che emerge, limpido, quando la libertà di espressione smette di essere un principio e diventa un privilegio.
Shahin vive in Italia da vent’anni, ha figli italiani, nessuna condanna penale, una storia personale che parla di integrazione più che di marginalità. Ha definito “resistenza” l’attacco di Hamas del 7 ottobre. Una definizione moralmente indifendibile, senza attenuanti. Quello è stato un massacro di civili, e chiamarlo resistenza è una distorsione etica grave.
Ma la democrazia non punisce le distorsioni etiche, punisce i reati. E qui il punto è tutto qui. La Procura ha archiviato perché di reato non ce n’era traccia. I giudici di Torino hanno valutato gli atti, escluso una pericolosità concreta e attuale, e hanno ordinato la liberazione. Applicazione lineare dello Stato di diritto.
La risposta politica, invece, è stata tutt’altro che lineare. Il ministro Piantedosi aveva firmato il decreto di espulsione senza pensarci un istante , la presidente Meloni ora attacca i magistrati accusandoli di ostacolare la sicurezza nazionale, la maggioranza rispolvera il repertorio delle “toghe rosse” e i giornali di destra agitano perfino il referendum sulla giustizia, che con questo caso non c’entra ovviamente nulla ma serve sempre a delegittimare chi giudica.
In questo coro spicca l’editoriale di Mario Sechi, direttore di Libero. La tesi è semplice "Shahin non è un cittadino qualunque", ma una guida spirituale, un influencer capace di orientare i fedeli. Le sue parole sarebbero quindi pericolose, radicalizzanti, incompatibili con la sicurezza del Paese. Da qui la conclusione... espulsione necessaria, inevitabile.
Il ragionamento, però, si incrina appena lo si guarda allo specchio. Perché Sechi svolge esattamente la stessa funzione che rimprovera all’imam, solo da una posizione infinitamente più potente. Anche lui orienta comunità, costruisce narrazioni identitarie, indica nemici. Magistrati, opposizioni, migranti, minoranze. Un flusso quotidiano di ostilità legittimato come “opinione”.
La differenza non sta nell’effetto delle parole, ma nello status di chi le pronuncia. Sechi è un "imam laico", protetto dal doppio scudo dell’articolo 21 e della libertà di stampa. Shahin è uno straniero. E qui il principio si capovolge. L’odio diventa libertà quando parla dalla parte giusta del confine simbolico, diventa minaccia alla sicurezza nazionale quando arriva da chi non ha il passaporto giusto.
Lo stesso ambiente mediatico che invoca l’espulsione dell’imam difende senza esitazioni le invettive razziste di opinionisti americani, il delirio misogino e omofobo del generale Vannacci, le manifestazioni con saluti romani. In quei casi nessuno parla di pericolosità sociale. L’odio diventa provocazione, la provocazione pensiero critico.
Sia chiaro e lo ribadisco con forza, le parole di Shahin restano sbagliate e meritano una condanna netta sul piano morale. Ma la critica non è una sanzione penale, e l’espulsione non può diventare una scorciatoia politica quando il diritto non offre appigli. Se la Procura archivia e i giudici escludono la pericolosità, la democrazia funziona proprio accettando quel verdetto, anche quando non piace.
Il caso Shahin serve invece a un altro scopo meno nobile, alimentare lo scontro con la magistratura, trasformare la sicurezza nazionale in un grimaldello politico, usare un imam come capro espiatorio per ribadire che il potere giudiziario deve smettere di “ostacolare” il governo. Un copione già visto.
Una democrazia liberale può sopravvivere anche a parole odiose. Non può sopravvivere, invece, a una giustizia selettiva che colpisce solo chi è più debole o più esposto. Oggi l’imam è libero perché qualcuno ha applicato la legge invece di piegarla. Domani, se passa l’idea che l’espulsione possa sostituire il processo, il bersaglio potrebbe essere chiunque.
Il vero problema di sicurezza nazionale non è una parola pronunciata in una moschea di periferia. È l’idea che lo Stato di diritto sia opzionale, sacrificabile ogni volta che intralcia una narrazione politica. È lì che la democrazia rischia davvero di essere espulsa.
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