PRESIDIO LAICO
Dire che il crocifisso è divisivo non significa negarne il valore storico, spirituale o identitario, ma interrogarsi sul senso della sua presenza nello spazio pubblico istituzionale. Gesù crocifisso non offende in quanto tale: rappresenta la vittima, la fragilità, l'ingiustizia subita. Diventa però problematico quando quel simbolo, nato per ricordare la sconfitta del potere, viene assunto dal potere stesso come segno di appartenenza collettiva, come se una fede potesse coincidere con l'identità dello Stato.
È qui che la questione smette di essere emotiva e diventa filosofica, perché riguarda il rapporto tra maggioranza e neutralità, tra memoria storica e spazio condiviso. Difendere la laicità non significa cancellare la tradizione cristiana né negare che il cristianesimo abbia plasmato profondamente la cultura europea [il diritto, l'arte, il welfare, le forme stesse della solidarietà sociale]. Questa genealogia è reale e va riconosciuta. Ma proprio per questo è ancora più necessario distinguere tra "riconoscimento culturale" e "imposizione istituzionale".
La laicità non chiede di rimuovere la storia o di costruire un muro bianco obbligatorio in cui ogni simbolo scompare. Non si tratta di privatizzare il sacro fino a renderlo invisibile...nelle piazze, nelle feste, nelle tradizioni popolari, nelle chiese, nelle comunità, i simboli religiosi possono e devono vivere liberamente [compresi simboli meno sacri ma più storici e con ferite ancora aperte come quelli al fascismo, per dire]. Ma lo spazio pubblico istituzionale [le aule scolastiche, i tribunali, gli uffici pubblici, i luoghi dove si esercita l'autorità dello Stato] deve restare neutro non per ostilità verso la religione, ma perché lì non si è credenti o atei, maggioranza o minoranza...si è cittadini.
Impedire che la logica della maggioranza trasformi un simbolo religioso in cornice obbligata per tutti non significa negare che molti si riconoscano in esso, ma evitare che il privilegio storico si trasformi in obbligo simbolico presente. La tradizione cristiana non ha bisogno dell'appoggio dello Stato per sopravvivere. È viva nella memoria collettiva, nell'arte, nella coscienza di milioni di persone. Anzi, la storia insegna che la fede è più autentica quando non si appoggia al potere, quando non confonde la propria voce con quella dell'autorità pubblica.
E proprio per questo vale la pena spingersi oltre con una provocazione "se un domani il sentimento religioso maggioritario appartenesse a un'altra fede e quella maggioranza chiedesse di esporre i propri simboli negli uffici pubblici, nelle scuole, nei luoghi istituzionali, manterremmo davvero la stessa posizione? Diremmo ancora che non c'è offesa, che è solo tradizione, che a noi personalmente non dà fastidio? O scopriremmo che il problema non è il simbolo in sé, ma il fatto che non è più il nostro?"
Questa non è una domanda retorica: è il test di coerenza di ogni posizione sulla laicità. Chi difende il crocifisso dicendo "è tradizione, non offende nessuno" dovrebbe accettare con la stessa serenità che, in un futuro diverso, altri simboli religiosi occupino quello spazio. Se questa prospettiva genera disagio, allora non stiamo difendendo un principio, ma un privilegio [l'abitudine a veder riconosciuta la propria identità come cornice istituzionale per tutti].
In questa possibilità futura sta il senso più profondo della laicità. Non come ostilità verso la religione, ma come unica garanzia perché nessuna fede [oggi dominante o domani minoritaria] possa identificarsi con lo Stato senza tradire, proprio nel gesto di imporsi, il significato che pretende di rappresentare. La laicità non cancella la storia, la protegge, impedendo che si trasformi in imposizione presente. E protegge anche chi oggi si sente maggioranza, perché nessuno può sapere se domani non diventerà minoranza.
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